Angelo Pretolani è un artista di estrazione concettuale attivo nella performance art fin dagli anni Settanta. La sua arte ha sempre sostenuto il segno dell’urgenza performativa, degli stati di grazia capaci di determinare l’espansione dello spirito nella ricerca del Sé. L’artista concepisce i suoi eventi esecutivi (apparizioni) attraverso l’identità di un ego impregnabile e metaforizzato: l’angelo, figura teatrale e allo stesso tempo alchemica.
In questa intervista, che sono orgogliosa di pubblicare oggi, abbiamo ripercorso insieme le tappe salienti della sua ricerca e indagato il penetrante timbro lirico della sua poetica.
Francesca Interlenghi: Vorrei partire dal tema della tua città, Genova. Sia perché la tua prima performance (Minotauro) era chiara metafora della città come di un labirinto in cui l’individuo vive una sorta di spaesamento, sia perché tu stesso affermi: “Risiedo a Genova ma vivo altrove”. Che rapporto hai con la tua città e come questo rapporto si è evoluto nel tempo, anche in relazione alla tua arte?
Angelo Pretolani: Genova è una città molto chiusa, attenta alla tradizione. Forse oggi è un po’ cambiata, io ci sono nato ma ho sempre avuto un rapporto difficile, anche se c’è chi dice che sono più genovese di quanto vorrei non esserlo. Per questo dico risiedo a Genova ma vivo altrove. E poi perché, come diceva un noto slogan del maggio francese “La vie est ailleurs”, la vita è sempre altrove, per chi non si lega ai luoghi e si tende sospeso nei non luoghi, in un inevitabile détournement.
Angelo Pretolani, Minotauro, Genova 1973
Francesca: L’arte performativa implica una concezione dell’opera che ha a che fare con il contesto, non solo quello fisico di appartenenza ma anche quello socio-culturale in cui si innesta. Gli anni dei tuoi esordi sono quelli segnati dalle contestazioni giovanili, allora ti chiedo: come si sviluppava la tua pratica artistica in quel preciso momento storico e quali influenze subiva?
Angelo: Mi sono formato artisticamente negli anni della cosiddetta contestazione giovanile post-sessantottesca, attento alle varie sperimentazioni, sia artistiche sia politiche, che si sviluppavano in quel periodo. Erano i tempi dell’immaginazione al potere, dell’utopia, del rock psichedelico. Era una rivolta esistenziale e in quell’ambito sono nate le mie prime performance. Era il 1973. Fra le varie “possibilità di espressione artistica” la performance mi è parsa fin da subito la più adeguata alle mie sensibilità situazionali. Anche se i miei coetanei consideravano il mio agire eccessivamente intimistico, a scapito di una idea collettivistica della società, io a quel tempo mi consideravo piuttosto “contemporaneo”, sensibile a quanto mi accadeva intorno. Le idee del Novecento le ho apprese lentamente, a mano a mano mentre procedevo in me stesso, conscio del fatto che è più importante sentire che capire. C’è sempre tempo per capire, invece una cosa o la senti o non la senti. E comunque prima c’è il sentire, poi il vedere; si vede sempre ciò che si sente.
Angelo Pretolani, Riassorbirsi, Trieste 2013
Francesca: Poco dopo, giocando con il tuo nome Angelo, inizi con le c.d. ‘Apparizioni’ accentuando il ruolo dell’interiorità dell’artista a discapito di un’idea più collettivista di arte e società che imperversava in quegli anni. Me ne puoi parlare? Mi interessava in modo particolare esplorare il ruolo e la funzione dell’Angelo.
Angelo: Preferivo usare il termine apparizione anziché performance, non tanto per italianizzare il termine, ma per evidenziare una distanza, quella fra spirito e materia, in una “visione identitaria”. Diventavo l’Apparente nella mia volontà di essere, sempre in equilibrio su un elastico estatico-estetico. Io vestito interamente di azzurro mi presentavo come angelo, un’immagine celeste che si esibiva in piccoli rituali. Possono piacermi le interpretazioni che ne hanno date i critici Germano Beringheli: “L’Angelo è una figura teatrale e insieme alchemica, identità di un io imprendibile e metaforizzato” e Sergio Mandelli: “Un essere a metà fra quello di Valéry e quello di Benjamin, sorta di Narciso che contempla se stesso ma che contemporaneamente è testimone muto e impotente della storia che scorre davanti a lui”. Ecco, essere nel tempo e non del tempo.
Angelo Pretolani, Apparizione dell'Angelo, Genova 1976
Francesca: Negli anni Ottanta arriva in maniera importante la contaminazione con il teatro, specie quello sperimentale. Senza dimenticare che sempre la pittura ti ha in qualche modo accompagnato. E così la poesia, le immagini, i video e da ultimo le nuove tecnologie. La tua creatività e versatilità si sono sempre espresse attraverso media differenti. Con quale criterio dissemini parte del tuo pensiero su un media piuttosto che su un altro? E qual è la relazione tra i differenti linguaggi di cui ti avvali?
Angelo: Mi sono sempre addentrato fra i vari media senza preferirne uno in particolare, atteggiamento questo assolutamente performativo. Indifferentemente uso ciò che “serve” di più il mio pensiero e le sue attese. Dare luogo a esperienze moltiplicative, provvisto di fatalità: i miei sono “segni accidentali”, indicano prossimità e distanza, alterazioni visive in un inespressionismo oceanico. Confusi e persi in un mare di nulla.
Angelo Pretolani, Sotto il selciato c'è la spiaggia, Londra 2016
Francesca: A proposito di parola scritta, qual è stata l’influenza dello scrittore polacco Witold Marian Gombrowicz nello sviluppo della tua poetica? E quella di Paul Valéry? Entrambi incisivi nella tua formazione.
Angelo: In ordine cronologico prima Gombrowicz poi Valéry. Si è trattato di vicinanze, di un riconoscersi in certi posizioni verso l’idea di mondo, lungo la logica dell’inesprimibile. Un viaggio verso l’inafferrabilità dell’esistere che prosegue tuttora. Mi piace ricordare di Gombrowicz queste parole contenute in uno dei suoi libri che già nel titolo indica un programma: Cosmo. “Un uccello apparve, celeste – altissimo ed immobile – che sarà stato: avvoltoio, falcone, aquila? No, non era un passero, ma per il fatto stesso di non essere un passero, era un tuttavia un non-passero, ed essendo un non-passero, un tantino era anche passero.” Ho avuto modo di approfondire il contatto con la cultura polacca nel 1979 a Varsavia, grazie ad una borsa di studio. Per quanto riguarda Valéry, il rapporto con lui può essere riassunto tutto in questa sua affermazione: “Nulla è così bello come ciò che non esiste.”
Angelo Pretolani, Coincidentia oppositorum, Genova 2016
Francesca: A partire dal 2008 conduci un’azione performativa dal titolo ‘Sotto il selciato c’è la spiaggia’ assolutamente interessante perché si rapporta al pubblico di Facebook andando così a scardinare uno degli elementi chiave di questa pratica: il coinvolgimento del corpo – quello dell’artista, si – ma anche quello dello spettatore e/o entrambi insieme. Quali le motivazioni di questo cambio di paradigma?
Angelo: Oggi i social network permettono all’artista di abitare una dimensione planetaria. I social network sono un mezzo che oggi l’artista può utilizzare per diffondere il proprio lavoro, scavalcando così il filtro delle gallerie d’arte o della critica per abbracciare e interagire direttamente con un pubblico ben più vasto di quello degli “addetti ai lavori”. Oggi l’artista viaggia sulle ali di una espansività mai conosciuta prima e i social network sono le nuove gallerie d’arte.
Dal 2008 ho scelto di utilizzare il social network Facebook come supporto per le mie performance. Conduco un’operazione assolutamente performativa che ho chiamato Sotto il selciato c’è la spiaggia prendendo spunto dal film di Helma Sanders del 1975, a sua volta carpito a un famoso slogan del maggio francese: Sous le pavés, la plage. Si tratta di azioni minimali e in un certo senso anche liminali trattandosi di performance che poi trascrivo sulla mia pagina di Facebook; sono ekphrasis di vere e proprie performance, non si tratta di un lavoro di letteratura o di poesia o di haiku, è un lavoro di performance dove tutto accade veramente!
Il ritmo di queste performance ha avuto cadenza quotidiana fino all’aprile del 2013, questo significa che ho postato una performance su Facebook per cinque anni. Ora l’operazione continua con forme e soprattutto tempi diversi: non più ogni giorno, ma ogni Venerdì, lavorando sull’identità selvaggia di Venerdì-Robinson, sentendomi effettivamente su un’isola deserta, sempre con modalità performative ma accompagnate da disegni che poi come messaggi in bottiglia affido al mare magnum della rete. Luca Blissett su Facebook ha così commentato: “Disegni che ricordano i mandala, immagini magiche e simboliche; rituali di meditazione verso il simbolismo dell’Universo – Kairos cancella Kronos e sospende la nozione di tempo. Questi segni generano energie che fluiscono nella circolarità della ruota della vita, nel cerchio eterno, Kosmòs.”
Angelo Pretolani, Sotto il selciato c'è la spiaggia, Genova 2012
Francesca: Vorrei tornare un attimo al tema del disegno che mi pare questione centrale, tanto che dal 2017 cambi il termine disegno in dissegno. Ponendo così l’accento sul segno, che a sua volta rimanda al senso di qualcosa che è adeso, impresso.
Angelo: Una modific’azione, dissegnare. Come ha indicato Cristina Palmieri: “Dissegnare è disseminare di segni, trovarli, lasciarli emergere. Costruire un disegno a partire dall’accostamento di piccole e minuziose tracce. Elementi che nel loro insieme compongono la totalità, come parti infinitesimali ma urgenti ed insostituibili. Porzioni di un universo infinito, ma in fondo “scomponibile” – o “composto” – in milioni di elementi, come il cosmo, come noi, esseri umani. Non per nulla la forma principe, per eccellenza, quella che ricorre in ogni opera, è il cerchio. Una sorta di mandala junghiano in cui l’artista, appunto, sparpaglia i propri segni. Queste azioni sono trascritte su Facebook in terza persona subito dopo l’evento, come se non fossi stato io ma un altro a compiere l’azione. Ecco la liminalità di cui ho detto prima. Come ho già spiegato altre volte si tratta di uno “spossessamento”, perdo sempre qualcosa di me alla fine dell’azione. Io mi espongo, non mi esprimo. In quanto produttore di senso e non di significati. Per dirla con Cioran: “Essa si svuota, dunque ti salva, ti priva di un sovraccarico ingombrante.” E aggiungo, nel momento in cui viene trasmessa ad altri diventa dono.
Angelo Pretolani, Dissegno, 30 ottobre 2020
Francesca: Tutto il tuo lavoro mi sembra denso di una tensione spirituale (le apparizioni, l’angelo, l’azzurro, la ritualità) che trova nell’arte e nel corpo, meglio dire nell’arte del corpo, la sua manifestazione. Chi è l’artista e come si muove nella dicotomica alternanza di materia e spirito?
Angelo: L’arte è lo spirito che si manifesta. L’artista è una figura ponte attraverso la quale si può transitare dalla sfera materiale a quella spirituale. “L’arte è del tutto inutile” diceva Oscar Wilde. Io aggiungo: inutile sotto l’aspetto materiale ma utile sotto l’aspetto spirituale. L’arte non è dunque necessaria dal punto di vista materiale, di conseguenza l’artista che la produce non può che essere una figura marginale. Intendo questo quando affermo che l’artista è un eroe inutile, nella sua marginalità non ha un vero e proprio compito sociale se non quello di aspergere bellezza. Io non ho linee guida particolari, mi lascio trasportare dalle emozioni vivendo in una dimensione di sospensione, fra forma ed evento.
Angelo Pretolani, La Nuit de Gênes, Genova 2019
Cover story: Angelo Pretolani, La Nuit de Gênes, Genova 2019
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