«Qual è lo scopo del mio lavoro? E cosa ho da offrire io al mondo, specie in questo momento storico?». Esordisce così, con questi interrogativi davanti ai giornalisti riuniti in occasione dell’anteprima stampa, l’artista america Barbara Bloom (Los Angeles, 1951) che ritorna alla Galleria Raffaella Cortese dopo un’assenza lunga 9 anni (l’ultima mostra in galleria, «The Weather», è del 2016).
Nello spazio centrale di Via Stradella 7 il nuovo progetto espositivo «Accord» (visibile sino al 26 aprile 2025) dà conto dei temi centrali della sua indagine: l’assenza, l’invisibile che si fa visibile attraverso un sottile gioco di ombre, di tracce e segni, l’abilità di attingere da eventi del passato per dare vita, soprattutto attraverso una sorta di riattivazione degli oggetti, a storie che raccontano di un possibile presente e aprono squarci su un ipotetico futuro. Peculiare l’ars narrandi di Bloom, che riesce a negoziare la relazione tra le opere e l’ambiente costruendo micro narrazioni all’interno di una stessa, corale conversazione. Un dialogo fatto di continui rimandi a eventi significativi, che hanno in qualche modo segnato un punto di svolta per l’umanità. Accordi, armistizi, collaborazioni, come il più antico trattato documentato tra due nazioni, quello firmato nel 1296 a.C. da Rames, il Faraone d’Egitto e Hattusilli III, Re degli Ittiti. O l’alleanza stabilita dal patto del 1373 tra Inghilterra e Portogallo, che è la più antica ancora attiva al mondo. O ancora, il Trattato di Pace (parte del Trattato di Parigi) che nel 1782 pose fine alla Guerra di Indipendenza Americana tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. La lista sarebbe lunga e questa non ha pretesa di esaustività. Piuttosto si vuole qui fare cenno alla metodologia di lavoro dell’artista che, con il piglio del ricercatore, muove da un’attenta analisi e ricognizione delle fonti per trasformarle in sostanza visuale. Materia viva che traghetta lo spettatore dai fatti alla loro traduzione artistica, grazie a un cortocircuito di ininterrotti e sorprendenti rimbalzi. Potere dell’immaginazione evidentemente, supportata da una robusta pratica e sostenuta da esiti formali mai scontati. È il caso di «Game Table», un tavolo e sedie in legno con più piani in vetro in cui sono esposte un’ampia gamma di pedine da gioco provenienti da vari periodi storici e attorno al quale l’artista ipotizza l’incontro tra le più disparate figure: Nefertiti, Émile Zola, Amy Winehouse e Gesù. Ironico, no? Anche solo prefigurarsi uno scenario di armonia tra questi personaggi i cui orizzonti temporali si fondono in un’unica partita. O di «Negotiations to end South African Apartheid (1993)», una stampa digitale che raffigura il processo di negoziazione e riconciliazione per porre fine all’Apartheid in Sudafrica alla quale fa da eco, steso a terra, un tappeto stampato digitalmente che rappresenta le ombre dei partecipanti proiettate sul tappeto nella stanza.

L’uomo è capace di grandi utopie, pare volerci ricordare Bloom che dissemina lo spazio della galleria di oggetti, strutturando una grande wunderkammer in cui si intrecciano ricordi e speranze. O ricordi di speranza. Tutto questo mentre di ciò che ci unisce non v’è più certezza. E osserviamo impotenti e attoniti (almeno io) l’avverarsi della profezia sentenziata dal politologo statunitense Francis Fukuyama («The Great Disruption», The Atlantic Monthly, maggio 1999): «Una società dedita al costante ribaltamento di norme e regole nel nome dell’espansione della libera scelta individuale si scoprirà sempre più disorganizzata, atomizzata, isolata e incapace di perseguire obiettivi e svolgere compiti comuni. La stessa società che non accetta limiti all’innovazione tecnologica non vede limiti nelle varie forme del comportamento individuale. Per conseguenza aumentano i crimini, si spezzano le famiglie, i genitori non riescono a compiere il loro dovere verso i figli, i vicini non si assumono le reciproche responsabilità e i cittadini abbandonano la vita pubblica».
________________
Cara Barbara,
non avrei mai osato scriverti se non fosse stato il nostro comune amico TJ (Wilcox) a incoraggiarmi. Non amo disturbare, non l’ho mai fatto. E forse per questo, fin da piccola, ho trovato nella scrittura il mio unico modo di stare nel mondo, senza disturbare. Nove anni fa ti ho incontrata per la prima volta, in occasione della tua personale “The Weather” alla galleria Raffaella Cortese di Milano. Ero entrata per caso (chissà se il caso esiste davvero) senza sapere veramente dove mi trovassi e con chi fossi. E ripensandoci adesso, dopo tutti questi anni, penso alla me di allora con grande tenerezza, grata di quella mia ingenuità e inconsapevolezza. Perché, come dicevano i latini: audentes fortuna iuvat.
Davanti alle tue opere, ferma immobile davanti ai tuoi tappeti che, posti a diverse altezze, creavano un ambiente onirico e metafisico, ho avuto una sorta di epifania. Ho capito che esisteva un luogo al quale anch’io potevo appartenere. Ed era proprio lì, tra cielo e terra, lì tra i tuoi lavori. Da quel giorno non ho più sentito il bisogno di rimuovere con forza, via dalla pelle e dalle ossa perfino, la sensazione di disagio che ho sempre provato vivendo e che mi ha sempre costretta in qualche modo ai margini dell’esistenza. Da quel giorno, ogni volta che mi sono sentita sola, triste o impaurita, mi sono rifugiata in una galleria d’arte, in un museo o in una fondazione. E lì vi ho trovato rifugio. Lì vi ho trovato conforto. Non dovrebbe essere questo lo scopo dell’arte? Non dovrebbe servire al mestiere di vivere?
Dal giorno in cui ti ho incontrata non ho smesso di scrivere. Oggi è diventato il mio lavoro. E nonostante negli anni l’ingenuità e l’inconsapevolezza degli esordi abbiano dovuto fare i conti con le sovrastrutture del sistema, non mi sono mai mossa, nemmeno di un centimetro, da quel punto a metà, sospeso tra cielo e terra, dove ti ho incontrata per la prima volta. È da lì che continuo a scrivere, da quella prospettiva privilegiata. Questo non fa di me un critico d’arte, un curatore o un’ intellettuale. Mi rende semplicemente una persona che scrive e che sa vivere solo scrivendo.
Immagino che, ringraziandoti, dovrei concludere questa lettera dicendo che spero di vederti presto. Ma in realtà ti vedo tutti i giorni, da quel giorno. Anche adesso che, come André Gide, ti scrivo sotto un azzurro perfetto. Nemmeno per un istante il sole si è oscurato e io non sono né triste né felice. Solamente, scrivo. E vivo.

Cober story: Barbara Bloom, Accord, Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan 2025. Ph. Andrea Rossetti