Nelle immagini dovevo vedere la poesia e la vita. E nelle sculture di Mitoraj io vedo la vita, le vedo vive, perché dentro il mio sguardo quelle sculture hanno vissuto. Una magia, il bello dell’arte, una emozione che attrae.
L’autorevolezza delle opere del grande artista polacco si impone nel progetto fotografico di Giorgio Galimberti in forma di presenze che sollecitano una immediata identificazione ma, al tempo stesso, paiono compromesse dalla materia di cui sono fatte. Enormi volti spaccati, torsi volutamente privi di arti, un modo di rapportarsi al passato, all’arte classica e ai personaggi mitologici, che finisce col toccare anche temi dell’attualità: le lacerazioni del presente, la perdita d’identità, la fragilità stessa dell’essere umano contemporaneo. E la superficie fotografica si offre come luogo privilegiato per valorizzare la sfera del personale, del frammentario, della sperimentazione.
“Un giorno camminando in Piazza del Carmine a Milano una statua ha attirato la mia attenzione e allora mi sono avvicinato e ho sentito tutti parlare di Mitoraj. Sono onesto, non è che conoscessi in maniera così approfondita il suo lavoro, ma anche grazie al fatto che la mia famiglia possiede uno studio fotografico a Pietrasanta, (luogo in cui lo scultore nel 1983 aveva aperto un suo studio ndr) ho iniziato a interessarmene. Poi un viaggio a Parigi: mi trovo alla Defénse e di nuovo difronte alle sue sculture, Icaro impresso negli occhi. Me ne sono innamorato e al rientro a casa ho deciso di iniziare questo progetto fotografico. Statue imponenti quelle di Mitoraj, eppure io le trovo leggere, fragili, oniriche quasi, un lirismo simile alle note di uno spartito musicale. Lascio perdere Piazza del Carmine, la giudico troppo banale e poi non trovo adatto per le foto lo sfondo della chiesa che si impasta con il resto. Decido invece di andare alla Barona (quartiere periferico di Milano ndr) dove c’e questa statua bellissima che tutti i milanesi dovrebbero conoscere. Un posto felice e solare e io lì ho scherzato con i pensionati presenti che tra l’altro sapevano tutto sullo scultore polacco. Tra le sue opere è quella che ho apprezzato di più perché é veramente l’opera di tutti, l’opera del popolo ed è giusto che sia così! Mi piace quando l’arte è fruibile al maggior numero di persone possibile anche e soprattutto al di fuori dei luoghi museali o istituzionali.”
Figlio d’arte, cresciuto in mezzo ai più grandi autori italiani come Franco Fontana, Mario Giacomelli e Nino Migliori, stretto tra le inevitabili aspettative che il suo cognome si porta appresso e lo scetticismo dei più, Giorgio confessa che le conoscenze acquisite tramite il padre Maurizio Galimberti gli hanno permesso di accelerare i tempi del suo ingresso nel mondo della fotografia. “Però solo dopo aver creduto in me, ecco che allora, pian piano, ho iniziato a essere rispettato come autore.” Una fotografia, la sua, che si esprime nella dialettica rigorosa del bianco e del nero, a molti passi di distanza da un umano ritratto come sullo sfondo dell’esistenza. A ridosso di architetture rigorose e geometriche figure piccole di uomini, quasi corollario del reale.
“Pur essendo figlio di un grande ritrattista, è da poco uscito il volume fotografico di mio padre dal titolo Portraits, il ritratto è per me una cosa molto difficile perché mi costringe ad entrare nella sfera intima del soggetto da ritrarre. Sicuramente non è una cosa che mi precludo ma è come dire: ci vedremo fra un po’. Quello che al momento più mi rappresenta sono le fotografie che hanno per protagoniste figure lontane, piccole silhouette e le loro ombre. Mi piace molto fare questi lavori che io definisco impropriamente dei paesaggi urbani; dico impropriamente perché la fotografia di architettura non credo sia quella che mi appartiene e non sono nemmeno capace a farla dato che ci vogliono delle precise nozioni tecniche che io non ho.”
La mia è invece una fotografia istintiva, non troppo ragionata, fatta a mano libera perché mi piace prendere la macchina e scattare. E l’uso del bianco e del nero deriva semplicemente dal fatto che amo la poesia e l’emozione che il bianco e nero dona alle immagini, la sua estetica e il suo fascino.
Una fotografia che antepone l’emozione alla tecnica, un approccio tale per cui la macchina fotografica diventa quasi esclusivamente un mezzo per poter raggiungere il fine. “Anzi a volte la macchina è un elemento di fastidio perché si comporta come una barriera tra me e l’oggetto da fotografare. Le migliori foto, diceva qualcuno, sono quelle che noi lasciamo negli occhi.” Una fotografia anche imperfetta, che non vuole essere puro esercizio di stile o atto di manierismo fine a sé stesso e che disdegna interventi troppo invasivi in post produzione. “Quando a Robert Doisneau chiedevano come deve essere un’immagine lui rispondeva che una fotografia non deve mai essere perfetta ma deve sempre avere in sé quell’imperfetto che permette allo spettatore di entrare nell’immagine. E questo per me è sacrosanto.”
E intanto anche un nuovo progetto sta prendendo forma: realizzato nei tram milanesi, la gente che si vede in faccia, ispirato al neorealismo; una street photography meno figurativa, meno sincera forse, certamente più autoriale negli intenti.
“Un questione personale, credo, che mi vede viaggiare sui tram di Milano e scattare foto a delle persone. Mi aiuta un sacco stare 2 o 3 ore al giorno seduto a osservare la gente. Il tram, alla fine, gira su un anello quindi è come se tutto si chiudesse, chi sale, chi scende e io immagino le storie delle persone, mi piace immaginare cosa fanno, dove vanno, osservare le loro mani provando a intuire chi sono. E come diceva Berengo la fortuna di fotografare con una Leica è di riuscire a essere il più discreto e anonimo possibile. Dopo un po’ che giro su questi tram riesco ad entrare in simbiosi con l’altro e riesco a fotografarlo da vicino vincendo quella barriera che solitamente si frappone. Chissà, forse questo è il percorso che mi serve per avvicinarmi al ritratto.”
La mostra “Tributo a Mitoraj” rimarrà esposta alla galleria DaDA East di Milano fino al 16 dicembre prossimo ma la volontà è quella di renderla itinerante e portarla a Firenze, a Piacenza presso Biffi Art e in tutti i luoghi che vorranno ospitarla.
“Sono certamente a un punto di partenza ma voglio di più dalla mia fotografia, voglio alzare sempre più l’asticella. Quello che provo a fare è una fotografia visionaria ispirandomi agli avanguardisti russi, ad Aleksandr Rodčenko in particolare che con le sue inquadrature ha rivoluzionato la fotografia.”
Cerco di sperimentare per poter magari un domani dire che, seppur nel mio piccolo, sono stato uno che ha cercato, uno che ha immaginato visioni nuove.
Desidero ringraziare per la cortese intervista Giorgio Galimberti www.giorgiogalimberti.it – Facebook – Instagram. La mostra “Tributo a Mitoraj” è alla Galleria DaDA East di Milano fino al 16 dicembre 2016. Testo introduttivo alla mostra a cura di Gianluca Nadalini.
Le foto dell’intervista sono di Elisabetta Brian
Giorgio Galimberti con Gianluca Nadalini che ha redatto il testo introduttivo della mostra