Quella di Maurizio Orrico è la storia di una passione coltivata fin da piccolo “in una Cosenza in cui chi provava a fare arte, al tempo, era una sorta di emarginato.” Una passione che sviluppa da solo, sperimentando per proprio conto i colori sulle tele, rubando il tempo della pittura a quello del lavoro nell’avviata azienda di famiglia. Una passione che diventa presto ragione di vita e lo porta in giro per il mondo, da New York dove nel ’94 inaugura la sua prima personale fino in Cina, Paese che lo vede protagonista nel 2010, insieme all’artista Mimmo Paladino, della mostra realizzata al Padiglione Italia in occasione dell’Expo di Shanghai.
“Il mio approccio all’arte inizia con la fotografia grazie a mio padre, un grande appassionato di apparecchi fotografici che io ho cominciato a usare fin da bambino. Terminati gli studi mi sono avvicinato per un certo periodo al lavoro dei miei genitori, al mondo della moda e della produzione di capi di abbigliamento. Ma di lì a poco ho realizzato che il mio vero amore era l’arte, la fotografia innanzitutto, ma anche la pittura e la scultura. E così ho avuto il coraggio di dedicarmi a esse totalmente vincendo una piccola scommessa perché non era facile, a quell’epoca e per di più al Sud, immaginare di fare l’artista. ”
La fotografia svolge un ruolo importantissimo in tutta la sua produzione artistica: l’immagine, la luce, l’equilibrio della composizione, il fotogramma che ferma un momento rispetto al quale c’è un prima e c’è un dopo adagiati nello spazio illimitato e illusorio della propria immaginazione. Tracce di luce come quelle rilevate nel peregrinare tra Berlino e Pechino, Light Shapes, un racconto di luoghi e figure, geometrie nitide e quartieri popolari, che tralasciano il didascalico in favore di un silenzio imperfetto così che l’enigma del cuore possa essere risolto visivamente. Cittadino del mondo, è proprio nel viaggio che l’uomo contemporaneo esprime la cifra della sua modernità: una necessità così radicata nel suo essere che è ben rappresentata dalle sculture dei sette Viaggiatori alti cinque metri, presentati alla 11° Biennale di Architettura di Venezia, e dai loro piedi talmente giganteschi che servirebbe inventarsi un antropòmetro per rilevarne la lunghezza.
“L’uomo che viaggia rappresenta noi tutti perché il viaggio è quello che ciascuno intraprende durante la propria esistenza. E’ la metafora dell’uomo che insegue un sogno così come fanno oggi tutte quelle persone nel Mar Mediterraneo o come hanno fatto le generazioni precedenti attraversando l’Atlantico in cerca di condizioni di vita migliori per sé e per le proprie famiglie. E’ il viaggio di tutti, il viaggio che si ripete e si moltiplica.”
La fotografia è in qualche modo anche il punto di partenza per la pittura e la scultura che prendono spesso la forma di pecore, buoi, maiali o lo scheletro di una mucca Al Sangue realizzato con i neon che invitano a una riflessione sulla violenta uccisione che ogni giorno si fa di un gran numero di animali.
“Questo presepe post apocalittico per esempio, in cui l’ossidazione di ferro, bronzo e rame produce nuance di colore particolare che esaltano le stampe degli scheletri degli animali, raccontano come l’uomo distrugga l’ambiente in cui vive andando incontro lui stesso alla propria distruzione. Un tema che ricorre frequentemente nel mio lavoro e che vuole porre l’attenzione su questa mattanza continua, su un consumismo sfrenato di cui non abbiamo in realtà bisogno e che andrebbe certamente regolamentato.”
Accanto all’animale anche l’uomo colto nella sua immanente fragilità, chino mentre cerca di mettere insieme i pezzi frastagliati del suo corpo, chino su di un Vuoto – titolo dell’opera presentata alla 54° Biennale di Arte di Venezia – che da individuale si fa universale perché esistenziale e da tutti sperimentato. E ancora l’uomo, fatto di Acrilico e Neon su Tela, che rincorrendo sé stesso rincorre la vita e nella corsa un piede sorpassa i confini della stessa opera d’arte nel tentativo di superare gli schemi e i dettami imposti dalla società, in un tentativo di fuga che lo porti lontano dagli stereotipi. E poi Ground Zero, lo skyline di New York e il vuoto lasciato dal crollo delle Torri Gemelle. Il vuoto lasciato da tutte quelle vite umane che sono state sacrificate. Insieme al sacrificio di un Cristo messo nelle scatole di latta per essere rivenduto, la cui mercificazione inizia quando è ancora dentro il sepolcro.
“Il filo rosso che lega tutte le mie opere è sempre una sorta di denuncia, un messaggio insito e tanto più evidente nel progetto delle casette realizzate per i clochard. Un tentativo di ridare dignità all’uomo, un senso di protezione e intimità.”
Dieci casette di cartone pressato, impermeabile e ignifugo, smontabili e rimontabili in soli tre minuti, consegnate il 14 febbraio dello scorso anno da Vittorio Sgarbi presso il Memoriale della Shoah di Milano. Una iniziativa resa possibile grazie alla collaborazione di Trenitalia, della Fondazione Memoriale della Shoah e dei City Angels, l’associazione che garantisce assistenza ai senza tetto.
“E dopo questo, sempre con Vittorio Sgarbi, presenteremo il progetto della Love House, la casa per le prostitute. Credo che l’arte abbia il compito di lanciare dei messaggi forti affinché non cali mai l’attenzione su temi così importanti. E al di là dell’evidente provocazione sarà un modo per sensibilizzare le coscienze riguardo alla questione della prostituzione nella cui rete rimangono per esempio imprigionate le tante donne che attraversano il Mediterraneo e arrivano in Europa piene di altre speranze e di altri sogni.”
Desidero ringraziare per la cortese intervista Maurizio Orrico – Facebook – Instagram
Location 7ettanta6ei Gallery – Fine Arts, Milano Via Felice Casati 39
Foto di Elisabetta Brian