CHIARA POLEMICA, ALLA RICERCA DELL’ IDENTITA’

Un percorso lungo e travagliato, fatto anche di sbagli, di tantissimi lavori che significavano poco o niente prima di intraprendere la via dell’arte, scoprirsi e scoprire, proprio tramite l’arte, il mondo. Ma nel girovagare apparentemente incongruo e nomade sempre un filo conduttore, sempre lo stesso: il tratto ora lieve ora grave di una matita da disegno.

“Io non ricordo quando ho iniziato a disegnare, è stata una mia modalità espressiva fin da subito. Forse prima ancora della parola. Ho sempre amato disegnare e scrivere anche, ma parlare no, non amo affatto parlare. E non mi piaceva nemmeno colorare, usavo matita e penna per tracciare le linee, le sagome, i tratti essenziali delle cose. Era quasi un bisogno compulsivo e per certi versi lo è ancora oggi, infatti se esco e mi trovo senza matita o penna la devo per forza comperare.”

Polemica è il soprannome che le daranno gli amici in futuro ma che già la rappresenta dal periodo tumultuoso del Liceo Classico dove ogni anno, per tre anni di seguito, cambia classe. Per via di quel suo atteggiamento sempre critico, sempre a mettere in discussione tutto. Un approccio che sente necessario, un modo, il suo, per capire il mondo.

“Si, ero già polemica perché io proprio non mi ci trovavo nel mondo! Il rapporto con le persone era molto difficile, mi sembrava che avessero tutti le idee molto chiare su quello che c’era da fare: studiare, andare bene a scuola, essere i primi della classe e poi trovare un lavoro. E io mi domandavo il senso di tutto questo. Più che voler vincere il gioco il mio era un interrogarmi sulle regole del gioco. Più che andare veloce, che è la cifra di oggi, io sentivo la necessità di soffermarmi sulle cose.”

L’ultimo anno del Liceo sembra non finire mai al punto che i giorni sono scanditi solo dalle crocette nel calendario e dal conto alla rovescia. Conseguito il diploma si iscrive alla Facoltà di Psicologia, più per la necessità di capire sé stessa che gli altri, ma non le interessa davvero esercitare la professione. Sente invece dentro il bisogno di riavvicinarsi alle persone, ai rapporti umani troppo spesso schivati a causa del suo essere introversa. Allora opta per l’Accademia del Teatro dell’Arsenale di Milano “soprattutto perché ero stanca delle vite che vedevo essere vissute intorno a me, fatte di così tanti luoghi comuni. Mi sentivo molto più vicina alle storie che leggevo nei libri: l’amore, le passioni, la morte, quei temi insomma. Il teatro è stato proprio buttarmi nella vita e avvicinarmi un po’ alle persone.” Eppure, terminata quell’esperienza, provando a rispondere alla domanda – cosa voglio fare adesso? – si trova catapultata nel mondo della moda con in mano un diploma di designer di tecnico della borsa e della scarpa.

“Quello che io amavo in quelle ore terribili era il disegno, la creazione, e a un certo punto mi sono detta: è questo quello che devi fare, devi disegnare! Forse era talmente naturale per me che non mi rendevo conto che avevo lì la risposta, proprio davanti ai miei occhi. Ma è quando soffri e tocchi il fondo, è in quel momento che veramente hai una spinta e metti a fuoco ciò che desideri fare.”

Il destino la fa inciampare in un piccolo e suggestivo negozio nel quartiere Isola di Milano. Uno spazio senza tempo né luogo, uno spazio per le idee, per guardare il mondo con i propri occhi e per far vedere al mondo le cose come le vedono i suoi occhi.

“Ricordo di aver detto: io affitto un negozio e ci apro un lavoro. Un pensiero che solo una persona non pragmatica, e mi permetto di dire anche un po’ artista, come me poteva fare. Quindi ho iniziato trasformando completamente lo spazio e poi pensando alle cose da metterci dentro. Non ci ho ragionato tanto, è stata una creazione libera e solo dopo ho guardato me stessa, come in un percorso a ritroso, trovando dentro a ognuno di questi quadri un pezzo di me e della mia ricerca di identità.”

Un percorso di immagini e parole che intorno al tema dell’identità fonda gran parte del proprio senso e valore. Funzionale a rispondere alle domande: chi sono? cosa voglio fare? Immagini e parole che non possono esistere le une senza le altre, fondamentali entrambi al punto che nessun quadro nasce disgiunto dalla sua didascalia, quasi un’opera nell’opera. Tra le parole anche quella più importante, SBAGLIA, in forma di luce al neon come fosse un invito, un monito, un incoraggiamento.

“Su questa parola, SBAGLIA, mi sono soffermata per mesi. Volevo un neon per attirare l’attenzione delle persone che passando non entrano perché non trovano il coraggio, e sono tantissime. Volevo che si portassero via comunque un messaggio, volevo indurre una riflessione. Scegliere una sola parola è stato difficile ma alla fine è stata questa, è stata SBAGLIA, come fosse un urlo di libertà. Perché se sbagli significa che stai facendo qualcosa di nuovo, che stai uscendo dalla tua comfort zone. Perché sbagliare significa accantonare i modelli di riferimento, le cose giuste, le cose da fare. Un invito a cercare la propria individuale dimensione di felicità, sbagliando anche, perché è l’unico modo per migliorarsi. Vivi, volevo dire, perché l’unico capolavoro è vivere!”

L’olio su tela insiste anche sui temi della fragilità e della solitudine, immagini di muri deteriorati a significare un senso del tempo che inesorabile passa, in un processo creativo che comincia inconsapevole e irrazionale e poi, solo in corso d’opera, si fa più cosciente, si svela. Nel desiderio di elevarsi raffigurato dalle mani tese verso l’alto di una donna, un auto ritratto significativo, una tensione continua.

I limiti della realtà e del mondo sono niente altro che i limiti che abbiamo dentro di noi. La realtà è solo una suggestione, non esiste, per cui tutto è una nostra lettura del mondo e di noi stessi. Ecco perché per me l’identità è così importante.

Nel bisogno di prendere le distanze da un mondo bulimico di tutto e dominato da un inquinamento di informazioni tale per cui alla fine è inevitabile non dare più ascolto a sé stessi e ai propri istinti.

“La solitudine è una delle sensazioni che più hanno caratterizzato la mia esistenza. L’essere sola mi ha fatto anche molto soffrire perché sentivo di non potermi esprimere ed è una tragedia per le persone sensibili. Ma la solitudine ha anche una accezione positiva di cui ci si sta un po’ dimenticando, la ritengo fondamentale per poter smettere di vedere quello che gli altri vogliono farti vedere.”

Nella mostra The Distance, allestita a Milano presso Brian And Barry Building, anche lì si è svelata Chiara. Nella distanza tra ciò che sogniamo e ciò che riusciamo a fare concretamente nel quotidiano. Alle spalle di un minuscolo uomo, ingranaggio di una catena di montaggio invisibile, che cammina rassegnato e chiuso dentro il suo abito da ufficio con la valigetta ben salda nella mano, un vaso gigantesco che pare quasi una architettura, l’architettura delle nostre speranze. Dentro un fiore reciso dalla mano dell’uomo, artificioso anche esso come la felicità per la quale tanto lavoriamo, una felicità che ci siamo prefigurati secondo canoni moderni e che rimandiamo a un futuro che immaginiamo sempre più prossimo.

“Io come immagino il mio futuro? Direi che immagino i miei sogni e la loro direzione, e quella prendo. Anche perché il mondo è talmente imprevedibile, cambia a una velocità tale che voglio lasciarmi la possibilità di sorprendermi giorno per giorno. Viviamo in un momento storico difficilissimo in cui, a differenza di un tempo, possiamo sognare qualsiasi cosa, qualsiasi vita, eppure, per contro, la congiuntura economica rende praticamente impossibile fare qualsiasi tipo di lavoro. Ho poco da perdere ho pensato. Tutto è difficile e allora io mi butto e faccio me!”

Desidero ringraziare per la cortese intervista Chiara Polemica, Via Garigliano 5 Milano – web siteFacebook 

Foto di Elisabetta Brian 

 

 

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