Un approccio soggettivo alla materia moda che metta in crisi la sua pretesa di essere luogo di verità. Che miri alla trasformazione delle sue stesse strutture e istituzioni. Che smonti e rimonti le sue gerarchie. Che affranchi l’industria del fashion dai peccati dell’industria. Che affondi le radici del proprio manifesto concettuale nelle nozioni di imperfezione e lentezza. Una posizione radicale quella di Mihaela Slav che dal 2011 con il suo brand dECOnstruction Lab esplora possibilità creative altre, altre strade espressive e immaginative.
“Ho deciso che la mia posizione sarebbe stata quella decostruzionista, che avrei provato cioè a costruire un percorso diverso, una versione 2.0, muovendo da un semplice interrogativo: what if? Non si tratta di porsi contro il sistema. Si tratta piuttosto di prendere certe regole, quelle su cui il sistema si articola e che sono apòrie, e indagare l’esistenza di percorsi non omologati. Nel fare questo mi metto in prima linea, metto tutto in gioco, perché il mio è proprio un modo di vivere. Un elogio solenne alla creatività umana. Nell’unica vita che ho a disposizione costruisco scenari sulle facoltà del possibile che dignitosamente poi percorro con tutte le cadute e le salite, i fallimenti e i successi.”
Nata a Costanza, in Romania, ai tempi del regime di Ceaușescu, Mihaela manifesta fin da piccola, nonostante le condizioni avverse, una curiosità e una predisposizione per la moda. Il culto della personalità del dittatore imponeva a tutti il silenzio, la polizia politica era ovunque, nascosta tra i civili e quando la sera, intorno alle 20, si rimaneva al buio senza corrente elettrica non restava altro che inventarsi un mondo diverso. A lume di candela prendevano forma gli abiti per le bambole, si materializzavano le riviste di moda, i cataloghi di abbigliamento che illecitamente arrivavano dalla Germania, e le mani modellavano la cera per darle forme nuove e inattese.
“Suppongo di aver dovuto estraniarmi in qualche modo dalla realtà già da bambina. Mia mamma mi racconta che sono stata da sempre in conflitto. Una conflittualità che inizialmente era rivolta al sistema ma che poi, con il tempo, ho esteso a tutto quello che viene comunemente accettato come dato, pre-stabilito, pre-scritto, pre-determinato. Eppure nonostante quei sentimenti contrastanti non posso dimenticare quello che ho provato quando è crollato il regime di Ceaușescu, mi ricordo ancora i brividi! Mentre la radio annunciava la sua fuga io ho avuto la sensazione nettissima di essere in quel preciso momento testimone di qualcosa di molto molto importante. E quella sensazione mi ha accompagnata per il resto della vita. Voglio dire che ritrovarmi in quelle circostanze storiche ha fatto si che io non avessi più idea dei limiti: qualsiasi cosa può cambiare, non esiste una regola che non possa essere confutata e non esiste nessun tipo di sistema che non possa essere messo in discussione. Queste convinzioni mi accompagnano tutt’ora.”
Durante gli anni dell’adolescenza frequenta due scuole contemporaneamente: un liceo scientifico tutto incentrato sulla matematica e la fisica e una scuola d’arte con uno specifico indirizzo moda “perché ho dovuto in qualche modo nutrire entrambe gli emisferi del cervello, da sempre, quello razionale e quello creativo.”
Ma in seguito alla morte del padre rivaluta l’idea di proseguire gli studi di moda e si iscrive al Politecnico di Bucarest “prendendo la decisione di frequentarlo in lingua francese per costruirmi la possibilità di andare via. E’ in quel momento che è nata dentro di me l’idea di potermi trasferire altrove perché pur non essendo più sotto dittatura io comunque nel mio Paese non mi riconoscevo.”
Contemporaneamente fa un’esperienza lavorativa importante con una Associazione dedita al sostegno della vita delle famiglie negli anni successivi alla caduta del regime.“Ci siamo ritrovati con una pesante e difficile eredità da gestire. Il fatto che da noi l’aborto fosse vietato e da sempre praticato illecitamente, come forma di contraccezione. L’elevato numero di gravidanze non desiderate che aveva avuto come conseguenza l’abbandono di tanti bambini o ancora il problema dell’igiene negli ospedali che aveva causato un altissimo numero di contagi HIV durante le trasfusioni. Parlavamo di tutte queste problematiche all’interno delle scuole nelle ore dedicate a questo programma. E’ con questa esperienza che ho sviluppato una coscienza civica e la responsabilità sociale.”
Fino a quando a Bucarest le arriva la proposta del primo lavoro da stilista, a livelli importanti, che Mihaela coglie al volo iniziando con una gavetta durissima.
“Sono stati anni spesi senza sosta a cercare di capire i meccanismi e le dinamiche che regolano il sistema moda e il prodotto moda. Ho cercato di comprendere tutto quello che ruotava intorno a quell’universo tanto che ho iniziato anche a fare la make up artist o la editorial stylist nello sforzo di capire come funzionava il tutto. Al termine di quella esperienza avevo il mio ufficio stile e potevo sperimentare anche quello che piaceva a me.”
Ma proprio per la tendenza a mettere tutte le regole in discussione, proprio tutte, anche quelle stesse dell’esistenza, Mihaela crede nella possibilità di trovare in Italia una realtà diversa e decide di iscriversi all’Accademia Albertina di Torino. Convinta che moda e arte siano due ambiti complementari perché a ben vedere anche il costume è una struttura che, pur con tutti i limiti della sua portabilità, una volta collocata nello spazio ha la caratteristica di occuparlo e di interagire con esso.
“Nel giro di poco tempo mi sono ritrovata ad essere la ragazza rumena arrivata dall’Est con un bagaglio di informazioni collegate all’arte molto datato. Per tutta risposta ho iniziato a studiare senza sosta il contemporaneo. Non guardo mai al passato con occhi nostalgici, guardo sempre al suo sviluppo perché credo che l’unica costante sia sempre e solo il cambiamento. E’ durata circa sei anni questa mia immersione totale, anni in cui mi sono lasciata anche tentare dall’idea di diventare un’artista ma una volta a contatto diretto con il sistema dell’arte l’idea in sé è decaduta. E lì davvero ho capito di avere qualche problema con i sistemi.”
In questo frangente arrivano due incontri importanti: quello con la filosofia di Jacques Deridda e con l’artista cubana Tania Bruguera. Il decostruzionismo diventa il proprio modo di stare al mondo e “l’Arte de Utìl” – l’arte come strumento per il cambiamento sociale – diventa una finestra aperta sul reale, uno sguardo che può poggiarsi su ambiti e discipline diversi, senza limiti o barriere.
“Inizia così, sette anni fa, a diventare concreta nella mia mente la possibilità di dire ancora qualcosa nell’ambito della moda. Ma di poterlo fare fuori dal sistema, lontano dalla via conosciuta. E’ così che nasce il mio progetto dECOnstruction Lab: da tutte le esperienze accumulate nella mia vita, dall’aderenza ai principi del decostruzionismo, dalla volontà di condivisione, di creare un Lab aperto anche alla creatività di altri e capace di inglobare realtà simili.”
Irriverente. Coraggioso. Ardito. Ecco l’esito di quel what if? Un linguaggio capace di dare solidità materica alla più astratta speculazione intellettuale, capace di farci vedere le cose in tutta la varietà delle forme e delle possibilità.
Desidero ringraziare per al cortese intervista Mihaela Slav, fondatrice di dECOnstruction Lab – Facebook – Instagram
Foto di Alberto Nidola
Make up Mihaela Slav