Nell’uguaglianza con me ti invito a portare senza paura
e con amore la tua diversità insieme a Me.
Vesna Krmpotic (poetessa croata)
Nell’approcciare il lavoro della giovane e talentosa fashion designer Faeze Mohammadi, non ho potuto non tornare con la mente alle felici sperimentazioni di Gianfranco Ferrè, esito della sua fascinazione per l’India: una lezione fondamentale di vita per lui, fatta di emozioni e sensazioni legate ai colori, ai profumi e alle forme che hanno sempre trovato modo per esprimersi nelle sue collezioni. Un legame descritto con apprezzabile lirismo da Florisa Sciannamea che – in appendice al libro Fashion Intelligence (AA.VV. 2001) – rivisitando la camicia bianca dello stilista come Valore nell’Intelligenza della Moda, mette in relazione il Sari e la cultura come linguaggio universale. “Assemblaggi, affinità, incontri” si legge. “Oriente ed Occidente in un unico nodo empatico e sinergico. Connessioni e non separazioni traducono la Moda in un linguaggio universale, in Cultura.”
La moda è, nel suo significato più intrinseco, un fatto culturale e la cultura consiste di connessioni, non di separazioni. E’ linguaggio universale appunto. E’ conoscenza del mondo.
“Sono nata in Iran, nella bella città di Hamedan, e ho frequentato il corso di fashion design all’Università di Teheran dove mi sono laureata con il massimo dei voti. Sinceramente io mi immaginavo di diventare una pittrice, non di fare vestiti. Ma l’esame di ammissione per pittura è difficilissimo in Iran. Ci siamo presentati in 132.000 e io mi sono classificata al 269° posto, ma la prova successiva, quella pratica, non l’ho passata. Quindi mi sono iscritta al corso di moda, sebbene fosse l’ultima delle opzioni che avevo preso in considerazione. E adesso mi dico che sono contentissima di non essere diventata una pittrice! Del resto con il disegno e le illustrazioni me la cavo molto bene lo stesso.”
Dopo una breve esperienza come giornalista al fianco dei funzionari dell’economia del suo Paese, Faeze decide di trasferirsi in Italia per continuare la formazione nel campo della moda e grazie a una borsa di studio si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Brera.
“Qui ho frequentato il biennio di fashion design e qui ho davvero imparato come realizzare una collezione. In Iran il sistema moda non ha un respiro internazionale, mi avevano insegnato attività pratiche come cucire o costruire un cartamodello ma il modo in cui progettare dall’inizio alla fine una collezione l’ho appreso a Milano ed è stata veramente una svolta per me.”
Nel 2016 partecipa alla trasmissione televisiva “Detto Fatto”, condotta da Caterina Balivo, della quale dice:“è stata una bella esperienza, lì ho trovato una famiglia che mi ha voluto veramente bene e ancora adesso sono in contatto con tutti loro” e a quella fanno seguito una lunga serie di eventi: l’esposizione per sei mesi di due delle sue creazioni alla Pinacoteca di Brera, la sfilata al Museo Archeologico di Napoli, e poi Milano Moda Graduate e Fashion Graduate Italia, la Cosenza Fashion Week, Altaroma e infine il Barolo Fashion Show dove si è classificata al secondo posto tra gli stilisti emergenti.
“I temi che scelgo per le mie collezioni, e che sono alla base della mia moda, derivano di solito da problematiche sociali. Sebbene non eserciti più la professione di giornalista, continuo a informarmi su quello che succede nel mondo e sempre voglio trovare un linguaggio per parlare, un modo per dare dei messaggi, anche con i miei vestiti. Si potrebbe dire che non usando più le parole per scrivere i miei articoli uso ora gli abiti.”
Ci sono gonne dai colori accesi che si animano ancor di più nella giustapposizione di tasche e sono quelle della collezione di ispirazione militare Kobânî, dal nome della città del nord della Siria diventata celebre perché le donne che la abitavano, indossando le divise degli uomini e dei foulard a fiori colorati come cinture, hanno combattuto contro l’Isis cacciando l’esercito nemico dopo un anno e dieci mesi di instancabile resistenza.
“Volevo mostrare che queste donne, mentre andavano a combattere con quei bellissimi sorrisi che le hanno rese famose in tutto il mondo, portavano con loro, dentro ogni tasca, qualcosa di bello: in una il loro amore, in un’altra il loro figlio, in un’altra i loro sentimenti, in un’altra ancora la loro famiglia. E con tutte queste cose nelle tasche andavano a difendere la loro città.”
Fragile e al tempo stesso forte, scultorea eppure sempre magicamente fluida, la sua donna vive di contrasti armonici, di contraddizioni estetizzanti.
“L’abbinamento del tulle con la pelle nasce da una riflessione sulla Corrida, dall’esigenza, essendo io animalista, di far sentire la mia voce contro questo genere di spettacolo. I volumi importanti nelle intenzioni ricordano l’imponenza del toro e così anche i colori decisi, il nero e il rosso di questa collezione, ma le porzioni di corpo che il tulle lascia scoperte, la pelle a vista, non fa che mettere in risalto, in un gioco di contrapposizioni, la fragilità degli animali ma anche quella di noi uomini.”
E ancora, bambole applicate sui vestiti come gesto creativo e catartico volto a indagare aspetti personali e autobiografici della propria esistenza.
“Una collezione che è stata un viaggio introspettivo, dentro di me e che, in qualche modo, mi ha salvato la vita. Sono nata in una famiglia ricca ma quando poi mio padre è fallito noi figli, che eravamo ancora dei bambini, ci siamo dovuti mettere a lavorare Mi è sempre rimasta dentro la paura di ritornare povera come allora, di non avere nulla da mangiare. Le bambole simboleggiano l’infanzia, la pelle invece le radici. A dire che le nostre paure sono per la maggior parte tutte radicate nella nostra infanzia ma che c’è per forza un modo per combattere le fobie. Io l’ho trovato così.”
Ho sempre e solo visto Faeze con il capo coperto, fosse un velo o un turbante. Così l’ho vista nelle apparizioni televisive, così l’ho vista durante gli eventi, così l’ho vista in casa sua. Una libera scelta.
“Non ho mai voluto cambiare. Qui in Italia potevo anche fare a meno di indossare il velo, ma a me piace e ho scelto di tenerlo. Quando sono andata alla tv italiana presentandomi con il capo coperto ho incontrato sempre persone ben disposte ad accettarmi, nonostante la mia diversità. E se qualche commento offensivo è arrivato mi sono sempre detta che a farlo era qualcuno che non mi giudicava per il mio lavoro, ma solo per il velo. Magari certi lavori li ho persi per questo motivo e pur non aspettandomelo l’ho comunque accettato senza cambiare nulla di me.”
Ho scelto anche io di coprirmi il capo in queste foto, senza la stupida quanto superficiale pretesa di entrare, io così ignorante poi, dentro un universo di significazioni tanto complesse e articolate. Senza che nemmeno mi sfiorassero le implicazioni etiche o politiche di un gesto semplice, come semplici dovrebbero essere i gesti che riguardano l’amore. E’ stato solo perché voglio bene a questa giovane donna che per qualche ragione ho incontrato lungo il mio cammino. E quando vuoi bene a qualcuno, semplicemente, gli vuoi somigliare. Ti pare sempre che da qualche parte, in un suo sguardo, in un suo sorriso o in un suo silenzio ci sia un pezzettino del tuo sguardo, del tuo sorriso o del tuo silenzio che avevi magari dimenticato da qualche parte nel viaggio misterioso della vita. E così è stato.
“Sebbene fosse una cultura sconosciuta per me, ho trovato qui in Italia tante porte aperte e tante persone che mi hanno accolta. Mi ricordo che all’inizio, con la mia prima coinquilina italiana, eravamo entrambe molto diffidenti: lei cristiana e io musulmana, due mondi così differenti i nostri, ma poi, senza nessuno sforzo, siamo diventate come due sorelle. Questo per me vale tanto! Proprio a Milano mi sono resa conto di quante culture possano convivere insieme pacificamente. Alla fine capisci che non conta la tua religione o il luogo dal quale provieni o la lingua che parli. Perché siamo tutti esseri umani, proviamo tutti gli stessi sentimenti ed è questa, davvero, l’unica cosa che conta.”
Desidero ringraziare per questa nostra conversazione Faeze Mohammadi, Facebook – Instagram
Foto di Elisabetta Brian