FASHION REVOLUTION DAY

#WHOMADEMYCLOTHES?

Il 24 aprile 2013 a Daka, in Bangladesh, crollava il complesso produttivo di Rana Plaza generando quello che viene considerato il più grande dramma mai vissuto dall’industria tessile. Morivano 1.133 persone e più di 2.500 rimanevano ferite, schiacciate sotto il peso insostenibile delle condizioni di sfruttamento e pericolo che la delocalizzazione della produzione impone. Il Fashion Revolution Day che si celebra da allora ogni 24 di aprile vuole ricordare l’anniversario di quella strage. Nasce come movimento di sensibilizzazione spontaneo, diffusosi a macchia d’olio nelle piattaforme social, con l’obiettivo di restituire dignità morale all’industria della moda e pensarla di nuovo come forza positiva, generatrice di valori, di emozioni e di fascino. Non di morte. Perché non sia un business solo teso al profitto, abile a calpestare tutto e tutti, ma perché torni capace di rispettare le persone, l’ambiente, la creatività. Un movimento inclusivo e partecipativo al quale chiunque può aderire facendosi fotografare con l’etichetta del brand che desidera indossare rivolgendogli la semplice domanda #whomademyclothes? Vuole essere anche un modo per responsabilizzare l’utente finale, perchè la sua scelta può essere determinante se fatta con consapevolezza e lo slogan

fast fashion isn’t free

 ci ricorda che qualcuno da qualche parte del mondo paga a caro prezzo politiche esasperatamente profittevoli e per nulla etiche. Io sono andata da Cristina Del Buono e Stefania Casacci, le fondatrici del brand Sartoria Vico. Il 24 aprile scorso, aderendo al Fashion Revolution Day, hanno aperto le porte del loro Studio in Corso di Porta Ticinese 65 a Milano e io non ho perso l’occasione di chiedere loro #whomademyclothes?

“Noi abbiamo trovato ispirante questa iniziativa e vi abbiamo partecipato senza minima esitazione proprio perchè nel nostro manifesto abbiamo da sempre una serie di valori fondanti che sono in perfetta sintonia con quelli che il Fashion Revolution Day intende celebrare. Basti sapere che lavoriamo con lo stesso maglificio dal primo pezzo che abbiamo prodotto, dal primo sciarpone che abbiamo realizzato. Quello che poi è diventato un must delle nostre collezioni. E’ un maglificio che conosciamo bene, a conduzione famigliare, con il quale abbiamo iniziato e insieme siamo cresciuti nel tempo. Il nostro credo è fatto di pochi ma imprescindibili capisaldi. Parliamo di design to wear, perchè vogliamo fare abiti che stiano sul corpo. Diciamo knitwear perchè è la nostra scelta, empatica e univoca. E quando abbiamo pensato di realizzare il nostro progetto abbiamo dato per scontato di realizzarlo e produrlo in Italia, accorgendoci poi con il tempo di quanto fosse preziosa questa cosa, una autentica ricchezza. E con il Made in Italy è venuta spontaneamente anche la qualità, altra caratteristica irrinunciabile per noi. Quindi filati puri e costruzione dei capi degna. Questo è il nostro posizionamento che non è stato il frutto di pensieri strategici. E questa è Sartoria Vico, un pacchetto complesso esatta antitesi del fast fashion. Aprire le porte del nostro Studio in concomitanza con questa giornata significava anche poter parlare di noi, raccontarci, dire la storia nostra e quella delle persone che lavorano con noi. E’ una questione di etica tutto questo? Non credo, o meglio: tutto dovrebbe essere etico, a priori, senza bisogno di dover introdurre un concetto, quello dell’etica, che rischia di diventare un pò alienante se utilizzato per porre rimedio al fatto che prima si è sbagliato qualcosa! Si tratta semplicemente di ripensare al senso delle cose. E di chiedersi cosa ci sia dietro e prima delle cose stesse. E’ questa la piccola, grande, rivoluzione!”

Desidero ringraziare per la cortese intervista Cristina Del Buono e Stefania Casacci, Sartoria Vico www.sartoriavico.it

Foto di Nils Rossi

Comments are closed.