L’interno di una casa all’interno di un giardino. Nel giardino un albero di cocomeri e meloni. Nella casa: un letto, una tavola, due sedie, un armadio, un paravento, sull’armadio una valigia. (La giornata di una sognatrice , Copi)
Guardavo da lontano l’uomo che allestiva il suo palcoscenico. Era il palcoscenico della vita sognata. E in quel palcoscenico la fotografia abitava i luoghi dello spirito. Un dire per immagini, per far pensare, per suscitare prima che negli altri in sé stessi. Un mezzo per rendersi manifesti, a chi è capace di guardare. Un modo per denunciare il conflitto di dentro: il desiderio di essere diversi e il coraggio necessario a esserlo.
“L’inquadratura è il mio palcoscenico, lo devo studiare prima di fare il clic. Perché le fotografie prima vanno prima scritte e poi scattate.”
E lo guardavo mentre si preparava ad accogliere la luce, luce naturale. Cercata, aspettata, inseguita, arrivata talvolta per caso.
“Non ha a che fare con la tecnica. La tecnica è qualcosa che bisogna imparare certo, ma poi va sperimenta, di pari passo con la sperimentazione della propria anima.”
Non vedevo traccia dell’umano, non c’era apparentemente nessuno nello spazio, eppure c’era qualcuno nella mente.
“Molte volte gli spazi sembrano vuoti e invece sono ricchi, di quella che è stata la loro storia, del loro vissuto. Ci trovi dentro tutto quello che non vedi.”
Silenziosa amavo la parsimonia, nel dire, nel dirsi. Nei pochi elementi che facevano da contrappunto a un mondo appannaggio di una borghesia crescente apparente, a un reale sfacciato, pieno fino all’orlo di tutte le cose, in cui il bombardamento mediatico educa prevalentemente al brutto.
“Una bella fotografia? Quella che ti dà una emozione, quella fatta di eleganza e semplicità. Obiettivi a cui tendo lavorando per sottrazione, essendo massimamente selettivo in quello che fotografo. Le foto degli inizi, che guardavano a tutto, oggi guardano a meno perché bisogna dare quello che non c’è e quello che c’è è sempre di più e quello che si può dare è sempre di meno e quindi è necessario essere selettivi.”
E indugiavo sotto cieli color seppia, nuvole cariche di chiari e scuri, l’aria che si tingeva di bianco e di nero, sintesi di tutti i colori, sopratutto del colore dell’introspezione.
“E’ più asettico per certi aspetti, più distaccato, un po’ più snob che per me significa essere diverso in un mondo che è tutto uguale, un mondo in cui si vive di esteriorità per compiacere gli altri.”
La fotografia di cui tutto è espressione e funzione. La fotografia che è necessità quotidiana. La fotografia che è forma del guardare. La fotografia che cristallizza gli stati d’animo. La fotografia che è modo di stare nel tempo e nello spazio. La fotografia che cambia la percezione di quello stesso tempo e di quello stesso spazio.
“Viaggio con la macchina fotografica sempre in cartella, la fotografia è il mio pane quotidiano. Con essa ho scoperto tanto di me, ma facendo dei passi indietro, tornando più bambino cioè spontaneo. Nonostante la mia fotografia possa sembrare magari austera o monotona è in realtà più giovane di quella degli esordi, proprio perché sto facendo una sorta di percorso a ritroso. Mi sembra, attraverso il linguaggio fotografico, di poter dire e fare quello che avrei voluto e non ho potuto.”
La fotografia che è luogo di evasione, luogo di libertà. Spazio in cui non è necessario apparire, spazio in cui si può essere niente altro che sé stessi senza correre il rischio che il mondo ti schiacci ai lati. La fotografia che è palcoscenico della vita desiderata, drammaturgia della vita sognata. La fotografia che è narrazione della sofferenza anche. Forse perché solo nella sofferenza ci sta la verità.
“Credo di essere stato e di essere ancora un punto di riferimento per molti e per molte situazioni. Così nasci, così diventi, così ti insegnano che devi essere. Tutte le volte in cui avrei voluto che qualcuno fosse stato un punto di riferimento per me non sono mai stato capace a chiederlo. Ma non è vero che io non ho bisogno di niente. E la fotografia è lo strumento che mi serve per dimostrare che anche io non ho sicurezze. E’ il contraltare di una vita che avrei voluto diversa, in cui io avrei voluto essere molto diverso da quello che sono. E tutti i giorni me ne accorgo. Invece mi è stato insegnato che bisogna vivere e lavorare per il lucro, per arrivare, ed è una cosa dalla quale cerco di prendere le distanze. Ma sono distanze che non so se riuscirò mai a prendere fino in fondo. Fotografando mi chiedi? Forse, ora non lo so dire.”
Gianna: Bisogna correre attraverso la vita per arrivare a morire allo stesso tempo in cui si muore. E’ questo che ti volevo dire. Soprattutto in tempo di guerra. (La giornata di una sognatrice, Copi)
Desidero ringraziare Giorgio Finadri per il tempo e la sensibilità concessi a questa nostra riflessione.