Artisti, collezionisti, appassionati d’arte ed esponenti del mondo culturale si sono riuniti lo scorso 14 gennaio per festeggiare i 30 anni di attività della galleria Monica De Cardenas, che ha celebrato con una mostra e una serata danzante tre decenni di vitalità.
La sua indagine, sempre in controtendenza rispetto al mainstream, ha prediletto la fotografia concettuale e la pittura figurativa e si è espressa non solo nella selezione degli autori, maestri della scena italiana, artisti internazionali e giovani promesse, ma anche nella scelta della location. In via Francesco Viganò, agli inizi non ancora il centro di un’area urbana diventata poi cuore e simbolo di Milano, lo spazio espositivo si sviluppa in un grande appartamento al pianoterra, che conserva il carattere intimo e familiare di una casa, nella convinzione che le opere d’arte possano essere così meglio fruite e comprese.
Facendo un bilancio di questo lungo periodo, De Cardenas racconta: «30 anni, centinaia di progetti espositivi e la bellezza di vivere con gli artisti e fare le mostre, cosa che tutt’ora mi appassiona e che spero di continuare a fare. Mi sono resa conto quasi di sorpresa che fosse già passato così tanto tempo. Continuo a guardare tantissime cose e a selezionare quelle che secondo me ci dicono qualcosa di nuovo, ci fanno percepire il mondo in modo diverso. Negli anni ’90, quando io ho iniziato, era predominante il ruolo della fotografia, erano tanti gli artisti che riflettevano sulla fotografia in quanto mezzo di espressione principale del nostro tempo. Ma ho sempre apprezzato molto la pittura figurativa, anche in epoca in cui non interessava a nessuno, e adesso che assistiamo al suo grande ritorno io sto cominciando a rivolgermi un po’ all’astratto, in particolare al lavoro dell’artista coreana Chung Eun-Mo, nuova acquisizione della galleria. Del resto, quando tutti guardano una cosa poi comincia per me a diventare interessante guardarne altre. Nel prossimo futuro mi immagino esattamente qui, a fare quello che ho sempre fatto. Non sento il bisogno di andare altrove. Il mondo intorno a me non smette di cambiare, la città stessa è in costante evoluzione, e la mia è un’ottima postazione, privilegiata direi, dalla quale continuare a osservare e ricercare.»
Nella sala da ballo decorata in stile Liberty dell’Osteria del Treno di Milano, dopo cena l’energia creatasi pareva rievocare quella effervescente dei ruggenti anni Venti. Complici probabilmente la musica dal vivo, il jazz, i lustrini, le piume, i velluti cascanti e qualche dama che si lanciava in balli audaci alla Josephine Baker, ammiccando alla gesta di quella machine à danser o delle irriverenti flapper. Se, nel secolo scorso, l’atmosfera briosa della joie de vivre era arrivata dopo la guerra, e a farle da contrappunto, qui arriva dopo anni di pandemia, isolamento e costrizioni. Corsi e ricorsi storici, verrebbe da dire, animati dallo stesso sentire dell’uomo, «quella comunicazione vitale con il mondo – come lo definisce il filosofo M. Merleau-Ponty – che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita.»
Foto di copertina ©Andrea Rossetti