Chissà se anche a quelli del Gruppo Crack giravano nella testa le parole di Johann Joachim Winckelmann, quando scriveva che: “La libertà, solo la libertà ha sollevato l’arte alla sua perfezione”. Forse proprio in nome della libertà avevano scelto di chiamarsi come il rumore che fa un oggetto quando si rompe. Una forma di protesta “contro l’accademismo che domina l’arte italiana, i santoni che la governano ed i tabù da essi imposti”. Così sentenziavano nel loro manifesto.
Correva l’anno 1960 quando, nel bel mezzo di quella rivoluzione che ha fatto del nostro Paese un avamposto culturale, 9 protagonisti della scena romana, diversi per generazione e orientamento stilistico, si riunivano con la volontà comune di superare i vincoli dell’Informale e dell’alternativa Astrattismo/Realismo, che avevano caratterizzato gli anni precedenti, rivendicando per sé anarchia espressiva.
All’esperienza del Gruppo Crack, il collettivo composto da Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Fabio Mauri, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella e Giulio Turcato – insieme al poeta e critico Cesare Vivaldi – la Galleria Gracis di Milano dedica, dal 20 marzo al 20 giugno 2025, un progetto espositivo totalmente inedito e dalla forte connotazione storico-critica. A cura di Laura Cherubini, con un contributo critico di Francesco Guzzetti e con il supporto scientifico degli archivi degli artisti coinvolti, la mostra è una straordinaria occasione per conoscere una vicenda breve ma significativa testimoniata da un’unica mostra, organizzata alla Galleria Il Canale di Venezia nell’agosto 1960, e soprattutto dalla pubblicazione di un volume, promosso in particolare da Mauri e Marotta insieme a Vivaldi, ed edito dalla casa editrice Krachmalnikoff, che faceva capo ad Achille Mauri, fratello dell’artista Fabio.

Ma per capire il senso di questa avventura bisogna andare indietro nel tempo. Siamo alla fine degli anni Quaranta del Novecento e il mondo si presenta agli artisti, che hanno vissuto il totalitarismo e la guerra, come privo di qualsiasi speranza per il futuro. L’Informale, che ha Parigi come suo epicentro, diventa il punto di convergenza di tante esperienze, sviluppatesi nei decenni precedenti, che proprio nell’abbandono della forma e nell’assenza di qualsivoglia slancio progettuale trovano il loro trait d’union. Al contempo, rimane viva la tradizione figurativa e nonostante si abbiano pochi esempi di gruppi unitisi sotto questa bandiera, le esperienze dei singoli l’hanno potata avanti con approccio innovativo. Si pensi ai personaggi allungati e smagriti di Alberto Giacometti, o alle sculture di Martino Martini e Fausto Melotti.
E poi ci sono loro, che camminano come equilibristi sull’ultimo rigo inciso all’orizzonte, quello che separa il mondo noto dall’ignoto. Loro che bramano il tutto pieno dell’esistenza e si arrogano il diritto di non scegliere, perché rifiutano i mezzi stessi della scelta, rifiutano perfino il linguaggio. Loro che amano “il mondo, la tavola pitagorica che è il mondo, le sensazioni dissociate attraverso cui si esprime come numeri in tante caselle irreconciliabili. Amano le disarmonie che lo rendono armonico. Amano l’abbrutimento di per sé stesso, il “bruto” e l’immancabile angelo che da lui si risveglia”.

Durata il tempo di un solo anno (1960), la vicenda del Gruppo Crack è stata esempio di attraente irregolarità e rivendicazione di un atteggiamento disobbediente e in contraddizione con la precisione ideale di uno stile. Così descrive i suoi protagonisti il critico Cesare Vivaldi, non prima di aver apostrofato sé stesso come “un uomo che guadagna il suo tempo ordinando, disordinando, riordinando, un bric a brac di oggetti in una stanza abbandonata”. Pietro Cascella erige instancabilmente muri, con mattone e pietra, spino e martello, sacco e polvere. Pino Dorazio scompone la luce nel prisma e la ricompone in una maglia inestricabile. Gino Marotta con mani duttili costruisce scatole magiche e razionalissime che magari domani getterà allegramente dalla finestra. Fabio Mauri ha un “fumetto” negli occhi e un cuore bianco e dolce come di zucchero. Di tanti films visti e girati non gli son rimaste che le parole “The End”, gigantesche sullo schermo candido accecante. Gastone Novelli ha rubato ai pascià le loro belle recluse per incollarle sulla tela. Achille Perilli è l’allibratore che misura il tempo con l’orologio d’oro delle fiabe e delle vignette umoristiche. Mimmo Rotella s’è fatto un “vestito favoloso di vecchie affiches”. Giulio Turcato per venti lire vi regalerà l’oro che ha trovato in fondo alla sua scodella di zuppa, ma è moneta fuori corso per chi non sa cavalcare i destrieri dei sogni, per chi non crede nei miracoli.

Un giorno ho scritto che sarebbe bello poter ingannare la morte opponendole l’arte come rito di magia visiva. Un cerimoniale alchemico e simbolico, per liberare il volatile e l’etereo. Allora via! Con un’astronave attraverso un cielo chiomato di stelle, a guardare la terra che luccica da lontano e ricostruire altrove una civiltà. È questa la magia dell’arte? È questa e tante altre. È anche la sua capacità di mitigare fragilità e solitudine, ricordandoci che questa nostra vita, bellissima e tristissima, che oscilla costantemente tra l’intensità della tragedia e l’agilità della commedia, quando s’intreccia con l’arte sa dare forma a ciò che di meraviglioso e impalpabile si annida tra le pieghe dell’esistenza.

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Cover story: Il Gruppo Crack a cura di Laura Cherubini, Galleria Gracis 20 marzo – 20 giugno 2025, Installation view Ph. credit Fabio Mantegna.