Le protagoniste della fotografia dal primo Dopoguerra ad oggi sono esposte a Milano, alla Fondazione Luciana Matalon, che dedica allo sguardo femminile nell’arte fotografica e al contributo innovativo che le donne hanno dato a tale linguaggio una mostra composta di più di 90 opere originali, che vanno dal 1925 al 2018, di altrettante artiste selezionate grazie all’accurato lavoro dei curatori Maria Francesca Frosi e Dionisio Gavagnin.
Il punto di vista femminile e il suo processo di evoluzione si dipanano attraverso le immagini scattate da tante autrici di rilievo, lungo un percorso espositivo suddiviso in quattro capitoli – “La ricerca del sé tra identità femminile e ruoli sociali”, “Simpatie”, “Donne, moda, costume”, “Sul pezzo. Dentro all’attualità”.
Gavagnin, che ha co-curato questo progetto e che ho intervistato per meglio approfondirne i contenuti e lo spirito, è appassionato e studioso di arte moderna e contemporanea e di letteratura (di poesia in special modo). Ha pubblicato due libri sulla fotografia: Homini & Domini. Il corpo nell’arte fotografica, 2011; Fini & Confini. Il territorio nell’arte fotografica, 2018; e tre raccolte poetiche. Negli ultimi anni ha curato per Musei, Fondazioni e Gallerie private diverse mostre d’arte. La sua collezione di arte contemporanea (e di fotografia in particolare) è tra le più notevoli a livello internazionale. Numerose opere della collezione sono state più volte richieste ed esposte da importanti Istituzioni museali in Italia e all’estero.
Leni Riefensthal, Deutsche Turnerinnen, da Olimpya, 1936, stampa alla gelatina ai sali d'argento, vintage
Francesca Interlenghi: Per prima cosa, e per cominciare, vorrei chiederti qual è stata la genesi della mostra e perché era necessario, se lo era, indagare il connubio donne/fotografia.
Dionisio Gavagnin: L’idea della mostra risale all’incontro, nel 2019, con Maria Francesca Frosi, la quale aveva curato per il Comune di Villorba (TV), nello spazio della Barchessa di Villa Giovannina, due mostre fotografiche dedicate rispettivamente a Tina Modotti e a Dorothea Lange. L’incontro era avvenuto durante la mia visita alla mostra di Dorothea Lange, ed ero rimasto impressionato dall’intelligenza curatoriale con la quale Maria Francesca aveva progettato e realizzato quella mostra. Ed è nata una amicizia, ed una collaborazione. Maria Francesca non conosceva ancora la mia collezione fotografica, e, dopo la sua visita qui da me, è nata di comune accordo l’idea di insistere nella perlustrazione della creatività femminile nell’ambito dell’espressione fotografica. Questa idea, che confermava il percorso di ricerca di Maria Francesca sulla fotografia al femminile, pareva anche a me necessaria per colmare la disparità di considerazione critica e di pubblico tra la fotografia al maschile e quella al femminile, stante un risibile numero di studi ed esposizioni, anche a livello internazionale, sul tema. Sino all’uscita nel luglio scorso per Contrasto del cofanetto in 3 volumi Le donne fotografe (a cura di Clara Bouveresse e Sarah Moon) non esisteva, in effetti, alcuna sistematica pubblicazione (in questo caso, una rassegna cronologica delle “più significative fotografe” dal 1851 fino al 2010) sulla fotografia al femminile. Ed anche le non frequenti mostre dedicate alle donne fotografe non avevano di certo colmato il gap di conoscenza intorno al mondo della fotografia fatta dalle donne. Ad esempio, per restare ad oggi, al MET di New York si e appena conclusa (il 3 ottobre) una importante mostra dal titolo The New Woman behind the Camera, con 120 fotografe di 20 diversi Paesi. Ma la mostra si limitava al periodo 1920-1950, e l’attenzione curatoriale si concentrava su un singolo aspetto dell’universo identitario femminile, quello della emancipazione sociale della donna nell’ambito della modernità industriale ed urbana. Io stesso, devo dire, mi ero reso conto di aver sottovalutato la presenza delle donne nella fotografia moderna e contemporanea: nei miei due libri sulla storia della fotografia (Homini & Domini e Fini & Confini, entrambi per Campanotto Editore) su quasi 400 autori trattati, soltanto 45 erano le donne fotografe, poco più di un 10% del totale. Veramente troppo poco rispetto ad una presenza autoriale ben più ampia che emerge indagando scrupolosamente alcuni settori dell’attività fotografica, come, ad esempio, quelli della moda, del costume e dell’attualità.
Manassè Studio, Mein Zukerl, 1926, 15,8x11,2, stampa alla gelatina ai sali d'argento, vintage
Francesca: E’ noto che la storia dell’arte al femminile è strettamente connessa alla storia dell’emancipazione della donna. Lentamente, a partire dagli inizi del ‘900, le donne iniziano ad acquisire maggiore autonomia economica – pur sperimentandosi in posizioni subalterne rispetto a quelle degli uomini – e a misurarsi con gli strumenti della cultura e dell’arte. Iniziarono anche a utilizzare la fotografia.
Dionisio: In effetti, il rapporto donne-fotografia è una delle chiavi che consente di comprendere il percorso di emancipazione della donna attraverso il lavoro; in questo caso il lavoro intellettuale. Relegata societariamente sino agli albori del ‘900 in ruoli subordinati e frustranti in ambito famigliare ed aziendale, dopo la prima guerra mondiale e con lo sviluppo della produzione e dei consumi di massa, la donna entra per la prima volta in forze nelle attività intellettuali, impiegatizie e creative. E furono il marketing e la pubblicità i settori nei quali, nel periodo tra le due guerre, si manifestò maggiormente l’intraprendenza imprenditoriale e creativa delle donne, anche e soprattutto attraverso l’uso della grafica e della fotografia. Se infatti si esamina quanto prodotto in ambito pubblicitario, della moda e della ritrattistica in quel periodo non si può non notare, se non una prevalenza, almeno una parità, del contributo produttivo delle donne rispetto all’altro sesso. Basti citare l’Atelier Manassè di Vienna, co-diretto dai coniugi Olga Spolarics e Adorjan Wlassics, attivo tra il 1922-1938; Madame D’Ora (Dora Philippine Kallmus), prima donna, nel 1904, ad essere ammessa al Höhere Graphische Bundes-Lehr – und Versuchsanstalt, di Vienna, e a membro dell’associazione dei fotografi austriaci; Yva (Else Ernestine Neuländer-Simon) con Studio a Berlino dal 1925; Grete Stern e Ellen Rosenberg Auerbach che nel 1930 fondano a Berlino lo Studio ringl+pit, Madame Yevonde (Yevonde Philone Middleton), attiva a Londra nella ritrattistica e nella moda fin dal 1921 e tra i primi fotografi in assoluto, all’esordio degli anni ’30, ad usare la fotografia a colori, Laure Albin Guillot che a Parigi, fin dagli anni ’20, è una acclamata fotografa di moda; mentre, sempre a Parigi, Claude Cahun (Lucy Renée Mathilde Schwob) sperimentava negli anni ’20 l’uso della fotografia nell’ambito del role-playing e della transessualità, anticipando temi che sarebbero divenuti di attualità solo negli anni ‘70 (si pensi, ad esempio, agli Untitled Film Stills Cindy Sherman). Ma, le citazioni potrebbero essere tante altre. Insomma, la fotografia divenne allora per le donne una occasione di lavoro e nel contempo di espressione creativa come mai nel passato; e l’inizio di questo rapporto donna-fotografia contribuì ad aprire le porte ad un più esteso impegno delle donne in altri “generi” fotografici, come il fotogiornalismo, la fotografia di inchiesta, il paesaggio, la fotografia di auto-analisi e delle azioni performative: una chiave, il rapporto donna-fotografia, attraverso la quale è possibile leggere il faticoso percorso delle donne verso una emancipazione non solo economica, ma del pensiero, della mente. Una scoperta che andava raccontata.
Francesca: Quali le peculiarità della fotografia femminile rispetto a quella maschile? Quale lo sguardo sul reale?
Dionisio: Lo sguardo fotografico al femminile sul reale si distingue da quello maschile non tanto per originali procedure tecniche (punto di vista, composizione, tempi di esposizione, messa a fuoco, ecc.,), del resto in gran parte dettate automaticamente dalla stessa macchina fotografica (il black-box di cui parla Flusser (1) o, che è la stessa cosa, “l’inconscio tecnologico” di Franco Vaccari (2)), bensì per un diverso bagaglio discorsivo proprio della sensibilità femminile. Mi riferisco in particolare all’uso di due figure retoriche che vorrei dire proprie dell’universo sentimentale femminile: l’ironia, da un lato; e l’antifrasi dall’altro. Il ricorso a quest’ultima formula retorica, che consiste nella dissimulazione del significato profondo del testo da parte di una struttura sintattica apparentemente ordinaria, è basilare rispetto al risultato che l’artista donna intende infine ottenere, e cioè lo svelamento dell’assurdo, fino al limite del comico, di una data situazione o contesto. Si tratta, a mio avviso, di uno spontaneo meccanismo sintattico a due stadi: nel primo stadio agisce l’ordinamento dell’antifrasi, mediante la quale l’apparente normalità struttural-grammaticale del discorso, la latina dispositio, si inceppa in una anomalia segnica che potrebbe essere considerata a prima vista un “errore”; nel secondo stadio, l’errore grammaticale si rivela come seme dubitativo-generativo, e si scopre come “inventio” di un senso altro, trasgressivo, tendente al riso, oscillante tra ironia e cinismo. Se si analizzano da questo punto di vista la maggior parte delle fotografie esposte in questa mostra, con alcune eccezioni tra il foto-giornalismo di guerra o di emigrazioni nel quale prevale il registro del tragico, si potrà verificare come in effetti sia attivo questo meccanismo retorico a due stadi che ho provato a descrivere, e che è tipico dello sguardo al femminile sul reale: direi, infine, non solo fotografico.
Natalia LL, Post-Consumer Art, primi anni ’70, 6 stampe cm. 16x11 cad., tot. cm. 50x35, stampa alla gelatina ai sali d'argento, vintage
Francesca: Parlando di specifico femminile nel campo della produzione artistica, parli di un “sentire”, di una sensibilità distinta da quella maschile per ragioni di natura, di cultura, di ruolo societario. Puoi approfondire questo tema, che è piuttosto dibattuto e controverso nell’ambito della critica?
Dionisio: Una questione questa in effetti molto controversa, e che la critica, anche al femminile, risolve spesso tautologicamente affermando che (e sono le recenti parole di una famosa critica e curatrice italiana): “è innegabile notare in questi lavori la stessa forza, un linguaggio proprio delle donne, una connotazione unica”; senza tuttavia spiegare in che cosa consisterebbe tale “connotazione unica”. Anche le stesse artiste che negli anni ’70 hanno militato in Italia tra le file del “femminismo artistico” si esprimono dubbiosamente o genericamente di fronte a questa domanda (3). E, tuttavia, nel progettare la mostra, e studiando a lungo le opere fotografiche (e non solo fotografiche) delle artiste donne, mi è sembrato di intercettare nel linguaggio artistico femminile quello scarto sintattico-strutturale di cui ho detto prima, quel meccanismo retorico a due stadi che si insinuava tra la dispositio e la inventio dei racconti, e che ha a che fare, a mio avviso, con il “motto di spirito”, indagato nell’omonimo saggio del 1905 da Freud, e che faceva la differenza rispetto alla produzione artistica maschile. Restava però da capire da quale fonte o motivazione tale meccanismo scaturiva. Mi pareva chiaro che alla base di tali differenze discorsive vi fosse la differente condizione della donna (del suo corpo, del suo sentire) nel contesto di una società maschilista; in una parola, una corporeità del femminile nella quale natura e cultura si sommavano nel formare questa specifica corporeità umana. Natura: sesso e maternità; cultura: ruolo subordinato della donna nel contesto sociale. Ecco le basi materiali dalle quali partire, mi sono detto. Da qui l’indagine sui sentimenti scaturenti da tali basi materiali, che abbiamo individuato, con Maria Francesca, nella empatia e nella ricerca di una diversa identità, di una emancipata condizione sociale della donna, vettori sentimentali che alla fine, a nostro avviso, si incontravano circolarmente nella aspirazione femminile ad un mondo nuovo, inclusivo, giocoso, materno. Questo spiegava la particolare declinazione discorsiva dell’arte al femminile: il meccanismo sintattico a due stadi retorici antifrasi > ironia di cui dicevo prima.
Vanessa Beecroft, VB52. 98. NT Castello di Rivoli, Torino, cm. 228x178, C-print monté sous diasec
Francesca: Identità ed empatia sono le due macro aree tematiche intorno ai quali si sviluppa questa corposa collettiva. La prima ha a che con l’affermazione, anche dolorosa, di una soggettività che muove, storicamente e culturalmente, da una condizione di subordinazione. La seconda è un tratto squisitamente femminile, più squisitamente femminile mi concederai, che è in qualche modo connesso – dici bene tu – ad una innata propensione al dono. Dal punto di vista curatoriale, come avete declinato fotograficamente queste tematiche? Quali le scelte autoriali?
Dionisio: Con Maria Francesca abbiamo voluto articolare l’esposizione non per ordine cronologico delle opere o di nascita delle artiste, perché ciò avrebbe forzatamente sovrapposto e confuso i due temi che avevamo individuato come drivers del nostro discorso curatoriale. Abbiamo pertanto effettuato la scelta di dedicare due specifiche sezioni della mostra ai due sentimenti base dell’essere femminile: la ricerca di una nuova identità personale e sociale, e la simpatia; sentimenti che, come si vedrà in mostra, emergono nelle fotografie al femminile sin da quando la donna ha potuto esprimersi con continuità (a partire, appunto, dal primo dopoguerra) attraverso il mezzo fotografico. In più, abbiamo aggiunto due sezioni, Sul pezzo. Dentro all’attualità e Moda e costume, che ci sono servite a dimostrare, attraverso un nutrito nucleo di opere, la circolarità dei due sentimenti, la loro quasi-fusione dentro ad una pietas distesa sopra le tragedie della storia, e persino sui fatti e sugli spazi della modernità e della mondanità. Le 97 opere in mostra, da Mein Zukerl del 1926 dell’Atelier Manassè, sino all’opera multimediale della serie No Light del 2018 di Kateřina Šedá, coprono quasi un secolo di creatività femminile applicata alla fotografia. E abbiamo voluto esporre, insieme ad alle opere delle più note fotografe, da Claude Cahun a Tina Modotti, da Dorothea Lange a Margaret Bourke-White, da Germaine Krull a Ilse Bing, da Diane Arbus a Cindy Sherman, da Gina Pane a Marina Abramovic, sino alle italiane Lisetta Carmi, Carla Cerati, Ketty La Rocca, Vanessa Beecroft, Grazia Toderi, Silvia Camporesi, anche opere di artiste-fotografe meno note al pubblico, ma, a nostro avviso, non meno valenti, che lasciamo ai visitatori scoprire ed apprezzare.
Silvia Camporesi, Il sale del pensiero, 2006, cm. 75x99, C-print
Francesca: Penso sempre che una mostra ben riuscita – questa lo è – debba instillare nello spettatore domande anziché risposte. La mia, in conclusione è: quanto lo sguardo femminile è stato determinante nel produrre originali declinazioni del mondo? E quanto ha contribuito a farci percepire il mezzo della fotografia come una delle più vitali forme dell’arte contemporanea?
Dionisio: Credo che la risposta alla tua domanda possa leggersi tra le righe di quanto ho affermato sin qui. Il mondo delle donne è un mondo forgiato da un ottimismo attivo e resistente, da una forza sentimentale, protettiva e progressiva, tesa a tradursi in una nuova identità individuale e in una nuova configurazione sociale; conquiste di genere, ma in grado di valorizzare l’insieme delle relazioni umane ed il rapporto, sino ad oggi devastante, tra specie umana e ambiente. Ed è evidente come questo transito dall’oggi al domani sia concepito dalla creatività femminile a partire dalla modifica radicale dei rapporti di produzione, sino al lavoro liberato di cui parlava Marx nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1848: il lavoro come cooperazione e gioco sociale. Ma qui, il discorso si farebbe troppo lungo, immagino, per questa intervista. La fotografia, a differenza del cinema o della televisione, ha in sé l’attributo della fissità, ed anche se oramai siamo letteralmente invasi dalle immagini, anche fotografiche, essa ci consente, almeno in potenza, di soffermarci e di osservare. E se osserviamo attentamente una fotografia scattata da una donna, da una artista, ci accorgiamo che essa ci invita ad una riflessione non comune, ad una sospensione di ruolo, e ci troviamo di fronte ad essa alla pari, all’inizio di un viaggio, che non è solo mentale ma dell’intero corpo, al quale siamo invitati a partecipare. Il prima dimenticato, e il dopo da inventare insieme. Questa è la forza e l’originalità permanente dello sguardo fotografico al femminile; attributi che solo l’arte possiede, e che fanno oggi della fotografia una delle imprescindibili forme espressive dell’arte contemporanea. Ed una lezione di potenza creativa anche per l’altro, il mio, sesso.
Alessandra Spranzi, Fisica Naturale n. 1, 2005-2009, cm. 28x40, C-print su alluminio
Cover story: Marina Abramovic, s.t. (from the series: Gold found by the artists), dittico (Polaroid) a colori, 1981, cm. 60x56 cad., esemplare unico
Note bibliografiche:
- Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006 (1983)
- Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi, Torino 2011 (1978)
- Si veda a questo proposito le interviste effettuate da Marta Seravalli ad alcune artiste italiane militanti femministe (Suzanne Santoro, Simona Weller, Cloti Ricciardi, Ida Gerosa, Silvia Bordini) in appendice al suo bel libro Arte e femminismo a Roma negli anni settanta, Biblink editori, Roma 2003
____________________
Le donne e la fotografia. Le protagoniste della fotografia dal primo Dopoguerra ad oggi
a cura di Maria Francesca Frosi e Dionisio Gavagnin
Milano, Fondazione Luciana Matalon
fino al 28 novembre 2021