C’è un senso di rottura con gli schemi, quel senso del rischio tipico delle avanguardie, di chi parla il linguaggio delle asimmetrie, dei tagli, della sperimentazione. Una grammatica articolata che si traduce in un rigore di stampo giapponese, figure lineari di donna che abitano una nuova concezione spaziale. Con discrezione, pur nella dirompente forza dei suoi contenuti, Giulia Soldà attraversa la scena. Dietro solo un segno di gradevole compostezza.
La mia è una estetica silenziosa, fatta di dettagli. Mentre cammini indossando un mio abito non necessariamente qualcuno ti nota, ma da vicino allora si che la bellezza è evidente.
“Perché non è la voglia di essere al centro dell’attenzione a tutti i costi, è più il desiderio di esprimere la propria personalità attraverso un capo ricercato sia nella scelta dei tessuti che nello studio delle forme. Forme che ormai sono intrinseche, abitano dentro di me e assomigliano un po’ alle corazze di Yohji Yamamoto, l’unico mio punto di riferimento. Sono abiti coprenti, non femminili nel senso convenzionale del termine, non intendo spingermi verso l’androgina assoluta ma è la mia concezione di femminilità che emerge.”
Dopo gli studi di grafica alle scuole superiori si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne con l’obiettivo di diventare giornalista di moda, ma capisce presto che quella non è la sua strada e di lì a poco si trasferisce all’Accademia del Lusso di Milano per studiare editoria e styling. Al terzo anno del suo percorso realizza per un concorso tre bozzetti che vengono scelti come immagine della sfilata Abstract Feelings organizzata a Milano per gli studenti dalla stessa Accademia.
“Una volta vinto il concorso ho dovuto per forza mettermi all’opera e realizzarli quei bozzetti, non sapendo bene da dove partire perché fino a quel momento mi ero occupata esclusivamente di editoria e di creare un’ immagine. Così ho affiancato una sarta, per due mesi circa, che mi ha insegnato a costruire la base, la parte più affascinante di un capo.”
Quando ho visto i miei abiti indossati in passerella ho capito che quello sarebbe stato il mio lavoro.
Conclusi gli studi inizia a lavorare come consulente esterna e stylist mentre si impegna in un lungo e difficile percorso per dare avvio al proprio progetto personale. Bisognava trovare i finanziamenti, individuare uno spazio adeguato e dei fornitori affidabili che avessero la volontà di seguire piccole produzioni. Maatroom nasce anche grazie al sostegno dei genitori che riconoscono in Giulia una grande determinazione.
“Maatroom significa stanza dell’ordine ed è un nome che ho scelto durante un viaggio in treno. Maat è l’antico concetto egizio dell’ordine e dell’armonia e room in inglese significa stanza. Quando sono entrata in questo posto mi sono detta: questa sarà la stanza del mio ordine. Come se avessi capito la strada che dovevo percorrere e quindi il nome è venuto da sé.”
Lo spazio di Torino è fatto di superfici bianche, una scelta cromatica ben precisa che non interferisce con il resto. E dentro quel bianco ogni cosa che viene percepita si fa essenziale, un processo di riduzione minimale che enfatizza la presenza fisica degli abiti, le loro caratteristiche materiali e formali, suscitando una reazione immediata e coinvolgente.
Sono sempre stata una persona molto timida e ho vinto la timidezza dentro questo mio mondo, nel mio spazio, portando addosso i miei vestiti. E’ un po’ una vittoria poter esprimere totalmente quello che ho dentro.
“Perché ho sempre vissuto al fianco di persone che tenevano molto all’immagine, ma a una immagine distante dalla mia, molto legata alle marche, agli ambienti torinesi, quindi non riuscivo a essere completamente me stessa. Ora non ho più paura di nulla, nemmeno del giudizio degli altri! Sono diventata forte, forse un po’ più donna grazie a quello che sto facendo. E’ la vera me quella che vedi.”
Collezioni che nascono sulla scorta di una esigenza personale, di una riflessione sulle proprie necessità e preferenze, che si distaccano volutamente dalla contingenza della stagionalità, dalle presunte tendenze di stile, dalle regole imposte dai ritmi di produzione. Collezioni che si identificano per nome, come White Noise, il rumore bianco di due unici pezzi inseriti in un tutto nero dalle diverse sfumature, perché non tutti i neri sono uguali specie quando si gioca con i tessuti. O Dust & Storm per quella particolare tonalità di verde che rimanda alla Germania degli anni ’40, un tessuto utilizzato durante la guerra e rivisitato in chiave contemporanea.
“Difficile che io utilizzi nuance diverse dal bianco e dal nero. Fa eccezione solo il denim che però io considero abbastanza neutro. Ma quel verde mi ha chiamata e sono molto contenta di averlo utilizzato, al punto che poi è stato un pretesto per introdurre altre tonalità, sempre delicate e mai invadenti, come il grigio di lino.”
Da ultimo la collaborazione con Stefano Cordola, uomo molto sensibile e raffinato, in qualità di consulente della comunicazione, ha permesso al brand di passare da una dimensione marcatamente legata all’interiorità di Giulia, alla sua emotività, a una dimensione di più ampio respiro, inclusiva e capace di instaurare un dialogo a più voci.
“Stefano mi ha fatto vedere Maatroom così come potrebbero vederla le altre persone, e ha funzionato. E’ stato lui a prendermi per mano e a guidarmi da me verso gli altri. Ha abbattuto le barriere.”
Un stanza con una finestra spalancata su un mondo pieno di stimoli, di echi, di sollecitazioni. E da quella finestra lo sguardo di chi, con occhi e entusiasmo nuovi, si fa interprete di questo tempo presente, irrequieto eppure creativo. Una sintesi perfetta. Di bellezza silenziosa.
Desidero ringraziare per la cortese intervista Giulia Soldà fondatrice di Maatroom – web site – Facebook – Instagram
Location: Torino Via Po 14, Interno cortile – Scala C
Foto di Elisabetta Brian