Maria Chiara Bonora (1980, Ferrara) esercita la professione di architetto e collabora come fotografa con alcune realtà del territorio in cui vive. E’ co-fondatrice di Riaperture, associazione culturale che dal 2017 organizza Riaperture Photofestival Ferrara, nell’ambito del quale è responsabile degli allestimenti. Non ho mai messo di respirare è il progetto fotografico dedicato alla madre, scomparsa nel 2012. Con queste immagini, l’artista si accosta a un territorio ultimo del vivere restituendoci un mondo latente, denso e inteso, connesso a un mondo reale ma capace di evocare atmosfere immaginifiche. Liriche e impenetrabili, al pari della vita.
La reciproca appartenenza di vero e apparente e la natura indefinita, a tratti sospesa, del tempo e dello spazio, informano la serie. Le figure e gli oggetti scaturiscono da un universo simile al limbo, un habitat senza confini né limiti e lì vi transitano e lì vi fluttuano, pur nella loro immobilità. La fotografia si spoglia di qualsiasi assolutezza e diventa rappresentazione della realtà secondo un principio di libertà radicale, aprendo, attraverso il sogno, un orizzonte infinito all’evocazione del racconto sul mondo. Perché – ci ricorda Nietzsche – è nei processi del sogno che l’uomo si esercita alla vita vera.
Non ho mai smesso di respirare è la storia di una partenza e di un ritorno. Ho cominciato a sognare mia mamma subito dopo la sua morte, 9 anni fa (era gennaio 2012), e l’ho rivista tornare più e più volte da un lungo viaggio, come fosse partita contro la sua volontà e senza conoscere la destinazione. Ho preso ispirazione da questi sogni per scattare delle fotografie.
Maria Chiara: Era tornata da poco da un lungo periodo di assenza. Io avevo lasciato andare la mia ostilità passata e volevo davvero che fosse felice: passavo del tempo con lei e le mettevo i bigodini ai capelli. Ma la sua voce faceva capire che fosse comunque delusa da qualcosa.
Francesca: Dentro, piove da giorni. E se rimango così, ferma immobile al buio ad ascoltare la pioggia, mi torna alla mente quel verso della poesia di Neruda che recita: “cerco il suono liquido dei tuoi passi nel giorno”. Aspetterò che arrivi il mattino, cercandoti anche io. Dentro un tempo in cui non c’è il tempo, ma solo una teoria infinita di mattine. Lente a venire.
Inizialmente sognavo il ritorno di una persona malata, che doveva andarsene di nuovo di lì a breve e le prime volte i risvegli erano molto angosciati perché mi rendevo conto di rivivere il dolore del distacco più e più volte. Poi tornava per rivedermi, per rimanere un po’ più a lungo, ricongiungersi con le sue cose e i suoi affetti. Poi i sogni si sono evoluti ancora e tornava per restare, ricominciare a vivere una vita normale, fatta di lavoro, famiglia, cura della casa. Con il passare del tempo la sua presenza in sogno è diventata parte dei miei ricordi più cari, una presenza familiare, sempre più spesso neanche protagonista, ma di contorno, di conforto silenzioso.
Maria Chiara: Nel lavarsi i capelli nel lavandino, appoggiava la testa a pelo d’acqua, chiudeva gli occhi e restava immobile. Io la guardavo a lungo e in silenzio, rammaricandomi di non averle mai fatto una fotografia.
Francesca: Vorrei potermi pensare seduta da qualche parte, da sola e in silenzio. Forse solo il rumore dei gabbiani. Regalarmi un pezzettino di Altrove dove potermi rifugiare ad aspettare, con pazienza, l’immagine che dica di me. Quel frammento di istante fatto di luce, colore, emozione. Una storia, la mia. Che passa davanti ai miei occhi per un istante brevissimo e alla quale io sola so dare la forma di una fotografia: scattata al largo, in mare aperto, esposta alla mia più radicale vulnerabilità. E’ lì che io mi penso felice.
Fin dal primo sogno ho preso appunti di quanto ricordavo al risveglio. E’ un’abitudine che ho sempre avuto perché ricordo quello che sogno, sogno molto e i sogni sono molto dettagliati, perciò è facile scriverne. Dopo alcuni anni ho pensato che ciò che avevo scritto e disegnato potesse essere la partenza per qualcosa e ho cominciato a pensare a delle fotografie ispirate a quei sogni: a volte sono un dettaglio, a volte un luogo, più spesso un sentimento.
Maria Chiara: Tornata dopo un lungo periodo di assenza, come prima cosa mi chiese di andare a fare un giro in macchina con lei, con la mia perché la sua era stata venduta. Ad un certo punto mi venne un dubbio: mia mamma non guidava da un anno e mezzo e non ero sicura che si ricordasse come si facessero le curve. La guardai, era serena. Poi arrivò la curva: secca a 90° e uscimmo di strada. La macchina si rovesciò su un fianco, con il tettuccio appoggiato agli alberi di un bosco. Ricordo solo la sensazione di profondo sollievo nel saperla viva. Mi disse: “Scusami tanto, era da un po’ che non guidavo…” e cominciò a ridere.
Francesca: “Non sei di qui, non sei di là” mi ha detto mentre mi stringeva le mani. “Sono di passaggio, qualsiasi cammino mi porterà da un’altra parte” le ho risposto. Tenendo i suoi occhi fissi dentro i miei, mi ha accarezzato il viso per un attimo che mi è parso un’eternità. E ritornando a casa, a piedi da sola, ho pensato che se l’amore esiste deve essere proprio così. Come quella carezza, chiusa dentro le sue mani.
Ho pensato di scattare su diapositiva perché la proiezione dell’immagine aveva a che fare con la proiezione della mente. C’è qualche eccezione, ma la maggior parte sono diapositive. Nelle fotografie dove c’è una persona, sono io e l’esserci mi ha aiutata, assieme al tempo e ai sogni, ad elaborare il caos e il lutto e a farli diventare qualcosa.
Maria Chiara: Facevo delle fotografie ad una natura morta. Dalla parte opposta del tavolo, rispetto a me, c’era una sedia dove stava seduta mia mamma. Sembrava mettersi in posa quando scattavo, come se nella composizione avesse saputo di essere inclusa, ma quando andavo a vedere lo scatto lei non c’era, nonostante fosse inquadrata. Feci poi vedere le fotografie a L. e gli dissi: “Vedi, è normale che non ci sia. Non può vedersi. La vedo solo io”.
Francesca: C’è sempre stato qualcosa, dentro all’unica sfera di questa mia vita, che ha spostato l’attenzione su di me, nonostante tutte le mie resistenze. Un’alba o un tramonto, un’attesa notturna o una luce, un’immagine o un suono. Piccoli segni, quotidiani, nei quali ci sono sempre stata come ritagliata fuori dal tempo e dallo spazio, in una zona metafisica che tuttavia continua a prevedere anche tempo e spazio. Nei giorni con me, senza me, mi piace scrivere.
Se la fotografia è una forma di cura? Si certo, almeno per me lo è stata. Ha ricollegato delle cose che sentivo dentro di me, cose scomposte, frastagliate, e il rapporto con mia madre. Rapporto complesso, in certi momenti conflittuale, che la fotografia mi ha permesso di ricomporre.
Maria Chiara: La sogno ancora, ma fatico a ricordare cosa accade. A differenza dei primi anni in cui la sognavo, non è più una presenza anomala, ma naturale. I ricordi dei sogni si sono mescolati ai ricordi del passato. C’è sempre stata e ci sarà sempre.
Francesca: Tutto bello, sospeso nel vuoto. Tempo incerto. E futuro incerto. Uscirò e camminerò fino a stancarmi pensando a questo spazio più vuoto che pieno – anzi molto vuoto – in cui vivo. E chiedendomi perché in questo spazio i pieni mi arrivino così. Incomprensibili e sconnessi.
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Cover story: Maria Grazia Bonora, Non ho mai smesso di respirare, 16/18: Era distesa, si riposava dopo essere tornata da un lungo viaggio. Il vestito le era molto grande e mostrava delle cicatrici. Io le guardavo angosciata e lei cercava di rassicurarmi: “Non preoccuparti. Vedi? Questa è la prova che mi stanno curando. Non ho mai smesso di respirare”.