Scritte al neon: dissacranti, ironiche, strumento di critica. In forma di interrogativi, Perché fare? e di aureola Beato te e di Costellazioni e di Lettere Minatorie, come prelievi diretti su una realtà prosaica che si contrappone alla cultura elitaria dell’arte. Ma anche idee-opere annotate sulle Moleskine: una idea per un’opera in ogni pagina e in ogni giorno feriale. Una serie di proposizioni la cui identità risiede nel segno che dissocia il momento della realizzazione concreta dell’opera da quello della sua ideazione.
“Sono le società, i gruppi umani, a creare le idee e poi c’è qualcuno con una sensibilità più accentuata, l’artista nella fattispecie, che quelle idee le intercetta e le realizza tramutandole in opere. Credo che il fondamento dell’azione artistica risieda proprio nell’incontro tra la necessità dell’idea, che si impone, e la traduzione dell’idea stessa. Da questo incontro si genera l’opera d’arte che è sempre viziata da un errore, perché l’idea nasce pura ma già quando la traduciamo, trasformandola quindi, produciamo una piccola decapitazione. L’opera d’arte è riuscita, a mio avviso, quando riesce a essere coerente con l’idea e quando non la tratta troppo male, la rispetta in qualche modo.”
A Venezia, nello spazio di Altrove Flagship Store + Studio, in collaborazione con le due fondatrici Miriam Nonino e Alessandra Milan, Matteo Attruia ha inaugurato lo scorso 30 settembre la mostra Qui è altrove, un nuovo progetto site-specific, una nuova Experience in cui lo spazio diventa parte integrante dell’elaborazione creativa e le relazioni che gli elementi instaurano con il luogo assumono importanza decisiva. Una collocazione contestuale delle opere “che sollecita un senso di reciprocità basato su una mutualità reale, in cui l’arte crea uno spazio ambientale nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte” come spiega Germano Celant quando parla di relazione tra arte e ambiente (Ambiente/Arte, dal futurismo alla body art – Edizioni della Biennale di Venezia, Electra, Milano – Venezia, 1976 ).
“Il legame forte con Altrove era dettato dal fatto che una delle mie prime importanti esposizioni personali, curata da Guido Comis nel 2009, si intitolava proprio Qui è altrove. Perciò quando mi è stata proposta questa collaborazione ho pensato che questo di Venezia fosse un altrove che io avevo già vissuto in qualche modo, di cui avevo già fatto esperienza, e mi è sembrato quasi che un cerchio si chiudesse. Ho avuto subito nitida l’ immagine del Qui è altrove che trovava una dimora sua. Ed è esattamente quello che è successo.”
Il pensiero di allora, a 7 anni di distanza, viene rielaborato con gli strumenti di oggi. Con il neon, un metodo compositivo molto praticato dall’artista che non utilizza un font ma è il risultato della sua grafia. Con i taccuini sui quali sono appuntati in modo progressivo tutti i giorni della sua vita dal 25/7/73, data della sua nascita, al 30/9/16, data dell’inaugurazione. E infine con la sua firma autografa, la X già proposta anche in forma di neon. Diventa adesso un lavoro sul luogo, sul tempo e anche sul segno.
Figlio di un padre pittore di cui fin da piccolo frequenta lo studio, una laurea in Scienze Politiche ad indirizzo storico culturale e un trascorso aziendale che lo ha visto impegnato nel campo del design, Matteo Attruia manifesta da subito il proprio interesse per l’arte.
“La mia storia nasce da un processo di imitazione nei confronti di mio padre ma ho sempre avuto chiara l’idea che all’arte mi sarei dedicato nella vita. Solo che per scelta non ho fatto nessun tipo di studio specifico perché ritenevo potesse essere più interessante avere una formazione diversa rispetto a quella strettamente artistica. Mi sono quindi interessato alla letteratura, al teatro, alle discipline musicali. Ciò che sono oggi è frutto anche di quegli studi e mi permette di avere un approccio a-accademico, cioè scevro da qualsiasi condizionamento di carattere accademico.”
Ci sono sicuramente tratti frequenti nel suo modo di dare forma a certe idee. Il carattere ironico e dissacrante è quello che risalta forse con maggiore evidenza ma non mancano componenti più drammatiche. L’elemento preso a prestito dall’universo quotidiano si trasforma, attraverso il filtro creativo dell’artista, in qualcosa di diverso eppure fruibile grazie all’utilizzo di elementi e linguaggi e metodi espressivi capaci di incentivare un dialogo con l’arte anziché un monologo dell’arte.
“Ho sempre avuto nei confronti dell’arte un approccio anti-elitario e quindi ho sempre inseguito il balordo sogno di fare cose comprensibili a un numero più ampio di persone possibile. Dai circoli io sono sempre uscito e quando intercetto un’ idea e cerco di trasformala in un’opera, mantenendo una coerenza con l’idea che incontro, cerco sempre di rendere il risultato finale il più praticabile possibile. Non amo creare cose che respingano gli altri.”
Un pensiero inclusivo e generoso, e coraggioso probabilmente, che sul finire del 2015 lo ha visto impegnato a Treviso nella sede di Ca’ dei Ricchi con la mostra Collezione Privata, a cura di Giorgio Fasol. Esposti una serie di taccuini su cui erano annotati, secondo un ordine cronologico, tutti i suoi progetti. Non opere d’arte di per sé ma sole idee, quasi si trattasse di accantonare per l’occasione ogni residuo fisico.
“Mi è venuta in soccorso la mia biografia. Quando ho deciso di dedicarmi completamente all’arte come un impiegato dell’arte ho deciso di recarmi quotidianamente al lavoro. Questo implicava, non avendo io un luogo deputato, che avrei disciplinato il mio lavoro attraverso un contenitore. Così ogni giorno, per 4 anni e mezzo circa, ho deciso che sarei andato al lavoro e il movimento verso il contenitore che avevo individuato, ovvero le Moleskine, era lo sforzo io che facevo in qualità di impiegato dell’arte che imponeva a sé stesso di pensare a un progetto quotidiano. Perché il lavoro dell’artista è, fondamentalmente e prima di tutto, un lavoro. Non è legato solo all’intuizione e al talento ma anche al sacrificio e alla disciplina. Il risultato è che nei 5 progetti settimanali, perché 5 sono le giornate dedicate al lavoro nel day job, c’è dentro un po’ di tutto: pensieri che hanno trovato realizzazione, altri che sono rimasti sospesi, progetti che sono stati realizzati e altri che sono rimasti incompiuti, finanche progetti parcheggiati in attesa di …”
Mai come indagando questo lavoro ho avuto chiara la funzione dell’artista, che rende intelligibili le idee, gli dà l’esistere e l’esistenza, gli dà aspetto di cose sensibili. Se è vera la funzione positiva dell’arte, la sua capacità di elevare l’anima a quella sfera ideale che è la realtà sopra il sensibile, è altrettanto vera la funzione positiva dell’artista, potenza mediatrice tra immateriale e materiale. Nell’aspirazione a quel bene che è la bellezza. Nel suo accordo armonico con la ragione.
Desidero ringraziare per la cortese intervista Matteo Attruia www.matteoattruia.com
La mostra “Qui è altrove” si può vedere a Venezia presso Altrove Flagship Store + Studio, Calle Moro 2659/a fino al 29 ottobre 2016 – www.iosonoaltrove.com
Tutte le foto sono di Giulia Mantovani
Io e Matteo Attruia indossiamo abiti di Altrove collezione Ether FW/16