La Galleria Raffaella Cortese di Milano ha appena inaugurato la terza personale dell’artista Michael Fliri dal titolo AniManiMism. Un lavoro articolato che attraverso la compresenza di sculture, opere fotografiche e un’installazione video si addentra nella complessità di temi quali l’identità, la metamorfosi, il travestimento e la loro significazione.
F: Michael, vorrei iniziare parlando delle tue origini. Tu nasci a Tubre, un paesino di montagna situato in Alto Adige, e pur avendo viaggiato e sostato per periodi diversi in luoghi diversi – New York, Vienna, Parigi, Anversa, Londra – vivi attualmente tra Innsbruck e Zurigo ma lavori anche a Tubre dove hai mantenuto lo studio. In che modo la tua provenienza geografica ha influenzato la tua poetica?
M: Senza dubbio io credo che abbia fortemente influenzato tutto il mio percorso di ricerca e la mia poetica. L’Alto Adige è già di per sé stesso un luogo particolare: siamo italiani ma la lingua tedesca è predominante tant’è che al di fuori delle città più grandi, come Bolzano per esempio, l’italiano non viene utilizzato. Quando vado in Germania e parlo il mio tedesco le persone credono che io provenga dalla Svizzera, viceversa quando vado in Svizzera pensano che io sia originario dell’Austria. Fin da subito quindi mi sono dovuto confrontare con il tema della dualità, con la questione della identificazione.
F: Dualità, identità, trasformazione sono poi i concetti sui quali poggia tutto il tuo lavoro. Pensi che l’interesse per queste tematiche possa essere stato generato da quella situazione di origine?
M: Assolutamente si. Poi certo io ho provato a coltivarla questa ambiguità, a volgerla a mio favore in senso positivo. Per esempio già durante il periodo dell’università, nell’arco dello stesso anno accademico, studiavo sei mesi a Bologna e gli altri sei a Monaco. Ecco allora che la dualità è diventata per me una vera e propria ricchezza e come tale l’ho dirottata all’interno dei miei lavori.
F: Sei certamente un artista poliedrico abile nell’utilizzo di media diversi: il video, la performance, la fotografia ma anche la scultura e le installazioni. Come nasce il tuo processo artistico? Voglio dire, dal momento dell’intuizione fino alla realizzazione dell’opera, passando attraverso la scelta di uno specifico media, qual è il procedimento?
M: Dico sempre che all’inizio e al centro c’è il concetto, l’idea poetica, la poesia dell’idea e tutto il resto deve seguire, deve sostenere questo concetto al meglio. Così a volte esso richiede un video, a volte una scultura, altre volte ancora una fotografia. All’inizio del mio percorso i lavori erano un po’ più narrativi e, siccome la narrazione necessitava di una certa temporalità, la performance e il video si prestavano di più e meglio a raccontare questa poesia. Oggi, pur interessandomi sempre il processo, la cosa non finita, avverto un po’ più forte la necessità di ricercare un punto statico. Come se sentissi di poter scegliere e di poter dire: questo è il momento. E’ il caso della serie fotografica My Private Fog II esposta in occasione di questa mostra (in cui l’artista riprende i temi del volto, della maschera e dei suoi mutamenti già presenti nella prima serie fotografica My Private Fog I del 2014 ndr). Raccolgo delle rocce in alta montagna e con un sistema che si chiama “termoformatura” (stampaggio di materie plastiche a caldo sotto vuoto ndr) riscaldo la plastica, la posiziono sopra il sasso e poi aspiro fuori l’aria in modo che la plastica si irrigidisca e io possa ottenere la pelle del sasso, mi piace chiamarla proprio pelle. Dopo di che la indosso lasciando che il respiro e il calore del mio corpo creino una specie di condensa. Se ci pensi io avrei potuto utilizzare il video mostrando l’evoluzione del mio volto che scomparendo fa comparire questa specie di montagna. Invece in questo caso specifico ho sentito di dover cristallizzare il momento in una serie di fotogrammi. Quello che continua a interessarmi è la dualità, l’alternanza qui espressa nel comparire e scomparire, sicché più tengo indosso la maschera e più dò vita a una montagna invernale, un blocco di ghiaccio. La mia identità diventa fluida e quasi non si percepisce più. E di nuovo ritorna il tema della dualità: caldo-freddo, interno-esterno. E in mezzo succede qualcosa. Forse la nostra identità è un pochino così.
F: C’è un medium che privilegi rispetto a tutti quelli che utilizzi oppure è proprio spontaneo l’accordo tra il concetto e la sua rappresentazione?
M: All’inizio privilegiavo sicuramente il video. Infatti le stesse performance non avvenivano davanti a un pubblico bensì si svolgevano davanti alla videocamera. Non agivo come attore e tutto aveva la forza della spontaneità. Oggi invece preferisco lavorare su binari paralleli utilizzando la fotografia, la scultura, il video, la performance.
F: Il tuo corpo gioca un ruolo di fondamentale importanza nella tua indagine. E’ al contempo protagonista e non protagonista, c’è e non c’è, sei tu ma non sei tu. E’ un corpo a disposizione che eleva il tuo messaggio da un piano individuale a un piano universale, lo spossessa della sua valenza soggettiva per attribuirgli valenza oggettiva. Tant’è che quando utilizzi il corpo, nella performance in special modo, racconti di diventare altro, di vivere proprio l’esperienza dell’altro. Come arrivi a ridefinire il rapporto con la tua corporeità in questi termini?
M: Io sono sempre partito dal mio corpo perché veramente lo ritengo a disposizione e come tale lo utilizzo, lo porto a fare certi viaggi, come quando salgo faticosamente il fianco di una montagna, utilizzando dei trampoli regolabili in base al livello della neve (Let Love Be Eternal, While It Lasts 2006 ndr). A volte ho l’impressione che siamo come buttati dentro questo mondo e così io mi butto, forse anche con una certa ingenuità, dentro il lavoro. E dentro il lavoro deve essere il corpo ad esprimersi. Ma niente ha a che fare con me, con la mia identità di singolo, non mi interessa in alcun modo l’idea dell’idolo, della star. Si tratta piuttosto di trovare un equilibrio tra la vita e il lavoro, tra il soggetto e l’oggetto.
F: Come se privassi te stesso della tua specifica individualità per parlare di una individualità più articolata e complessa che è quella dell’Uomo. Molto in contro tendenza mi vien da dire considerando i tempi che stiamo vivendo, tempi di narcisismo e di edonismo.
M: Però non voglio nemmeno attribuire un giudizio negativo a questo perché mi piace guardare sempre a tutte le cose, vedendo tutti i grigi che stanno in mezzo. E’ certamente una riflessione molto complessa ma posso dire di non essere un narcisista, anzi sono un uomo pieno di dubbi, tanti lavori dell’inizio, basti pensare alle disavventure dello scimmione protagonista del video Nice and nicely done (2005), giocavano molto sull’idea e sul significato del fallimento perché, a dire il vero, nemmeno questo riesco a vedere in maniera negativa. Forse mi aiuta anche il poter tornare nel mio piccolo paese, mi aiuta a staccarmi dal ruolo e a non rimanere incastrato in una certa situazione.
F: Un altro concetto di cui è pregno il tuo lavoro è quello della trasformazione. Tu parli di un interesse per le cose che stanno nel mezzo, nello spazio modellabile della metamorfosi. Le tue opere rimandano a un concetto di identità liquida, malleabile, una sensazione di fluidità che ritorna anche nelle sculture della serie Gloves, dove i guanti sono usati come maschere per le mani, e nella installazione di sculture intitolata Where do I end and the world begins, nate da un processo di doppio calco – positivo e negativo – di maschere provenienti dal Mask Museum di Diedorf (Germania). Anche il mascheramento ha per te una accezione positiva perché implica la possibilità di indagare altre identità. Mi racconti la genesi di questo lavoro?
M: Ancora una volta mi sono interessato a uno spazio di mezzo, uno spazio non esistente, quello tra il retro della maschera e la pelle. Perché quando indossiamo la maschera il nostro viso è dietro a essa ma non pensiamo mai che il primo livello è rappresentato dal retro della maschera e solo dopo, in un secondo momento, a un secondo livello, arriviamo noi. Inizialmente il progetto era nato con l’idea che fossi io stesso a indossare le maschere dei diversi Paesi del mondo ma, dopo un po’, anche le maschere stesse hanno iniziato a indossare altre maschere e le diverse culture si sono mascherate con le maschere di altre culture. Una sorpresa anche per me vedere cosa, di volta in volta, nascesse da questo processo e un modo per approfondire l’animismo dentro questo antropomorfismo, la volontà di dare una certa anima agli oggetti.
F: Nello spazio di via Stradella 4 ritorna il tema della trasformazione questa volta esplorato attraverso una video installazione a quattro canali dal titolo AniManiMism. Rispetto ai lavori degli inizi, in cui era anche molto presente la relazione con il mondo esterno, questo in particolare è meno narrativo, più suggestivo e poetico, più introspettivo direi. Quale il senso di queste mani che danno forma e fanno danzare le maschere?
M: Tutto muove ancora dal concetto di animismo che mi interessa particolarmente in questo momento. Lascio vedere le mani che muovono le maschere quasi come si trattasse di una radiografia, come volessi far vedere oltre le cose accettando il fatto che queste maschere abbiano un’anima. Chi muove chi? Chi controlla cosa? Da chi veniamo controllati? L’essere attivi o passivi: di nuovo il tema della dualità. Si potrebbe continuare chiedendosi: chi controlla la mano? Chi controlla la mente? E poi c’è una nuova forma di comunicazione. Per me la comunicazione è sempre un po’ difficile, prediligo i viaggi visivi, ma per la prima volta le cose provano a comunicare non usando la parola ma con un linguaggio altro, più astratto e non immediatamente comprensibile.
F: Concludendo Michael, che rapporto hai con la più grande delle trasformazioni, quella che ci riguarda tutti, che è la morte? E in che misura entra nel tuo lavoro?
M: Quello che so è che prenderà sempre più spazio nella ricerca, sarà sempre più dentro il mio processo artistico. Un po’ come nella serie fotografica in cui io lentamente scompaio e la montagna, per contro, compare con sempre maggiore evidenza. Credo che sarà così, poeticamente parlando, la relazione con la morte. Per esempio apprezzo molto artisti come Georg Baselitz o Bruce Nauman che hanno una certa età e la rispecchiano nei loro lavori e, allo stesso modo, io credo sarà importante per me portarmi dietro questa riflessione. Cosa significhi poi la morte davvero non lo so, è difficile anche parlarne, la parola morte è così grande…
F: Vita e morte si, parole grandi. E nello spazio in mezzo noi. E la tua arte a indagare. Grazie Michael.
Michael Fliri, AniManiMism – Galleria Raffaella Cortese, Milano Via Stradella 1-4 – website – Facebook – Instagram
17 maggio – 28 luglio 2018 | martedì – sabato h. 10:00 – 13:00 / 15:00 – 19:30 e su appuntamento
Foto di Elisabetta Brian
Indosso: abiti art259design, orecchini Aumorfia, collana Elisabetta Carozzi