Dal giorno che ci siamo salutati, qualche anno fa, Nino mi ha sempre scritto. Con garbata intensità e colori sbiaditi. Il mio treno era arrivato che noi stavamo seduti vicini, sulla panchina di una stazione ferroviaria in mezzo al nulla. Era estate e io vestita di bianco gli cantavo quella canzone di Paolo Conte. Cantavo libertà e perline colorate e la sensualità delle vite disperate. Poi sono andata via, senza nemmeno voltarmi. E lui mi ha scritto, sempre. Mi ha scritto anche: “Con te ho imparato il silenzio. Quando sei partita mi sono trovato. Preparato.”
Nino: Non c’è nulla dietro a questa porta. C’è un silenzio infinito e un tetto pieno di buchi. La porta è malandata ma non per questo meno bella. E poi è piena di segni e di ammaccature. La fotografo spesso e qualche volta l’ascolto.
Francesca: Nino mi raccontava sovente di sagome e di sagomanti. Ricordava i loro nomi e tutti i vizi. Non raccontava i peccati, per quelli non aveva tempo e nemmeno interesse. Nino era pigro con gli sgarbati. Raccontava di grandi amori altrui e leggeva libri con le lettere vicine, spesso difficili da raccontare. Nino indossava la camicia azzurra.
Nino: Le fotografie non si scattano, le fotografie si vedono. Non abbiamo forse il coraggio per lasciarle andare e non abbiamo probabilmente nemmeno il rispetto per noi. Così proviamo in continuazione a cercarci – fuori – a cercarci dove non ci troveremo mai. Ho ascoltato per un attimo le lettere, facevano rumore come quei cristalli leggeri.
Francesca: Non ti ho mai sentito sbattere una porta e nemmeno alzare la voce. I tuoi gesti sono sempre stati semplici. Ho ascoltato le tue lettere così dirette che mi riempivano il cuore e rendevano facile tutto, anche il tutto mai capito. Sei un po’ come le pareti scrostate della stanza, quella grande al primo piano. Ti vedo così, ti vedo simile alla polvere che si deposita sopra di me: polvere protettiva, quasi un regalo. Ti voglio bene anche quando non ti sento, anche quando sei lontano da tutto e da tutti. Forse alla fine è più semplice scrivere, che mi manchi.
Nino: Mi piace essere di parte, spudoratamente di parte. Mi piace la salsa di pomodoro, mi piace l’anguria, il vento e le cose che ti dico e le cose che sento che ti dirò. Mi piace quando ridi in silenzio e quando lo fai come se fosse un tuono. Profumi sempre di buono e credo che in questo lungo, lunghissimo silenzio troverò cose nuove, forse anche colori mai portati. E forse troverò anche me. Credo che alla fine sarà così.
Francesca: Non voglio più avere nulla a che fare con il mondo, lo ripetevi quasi tutti i giorni. Quasi tutti i giorni pari e poi anche quelli dispari. Eri così teatrale e così impacciato. Così chiaro e determinato. Così disperato, così solo. Ho sempre pensato che la tua maledizione fosse il silenzio che imponevi al tuo cuore. Ti abbraccio forte. Anche oggi, come tutti i giorni. Come sempre.
Nino e Francesca: Ci siamo ritrovati così e così abbiamo scritto. Lasciando i biglietti al solito posto. Era l’alba e faceva un freddo infinito e noi abbiamo ritrovato quel tempo che mai avremmo pensato di poter ritrovare. Abbiamo creduto che fossero scatti e che in qualche modo potessero racchiudere tanti mondi e tante gioie. E la nostra ruggine.
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Paolo Mezzadri ha iniziato a usare il ferro per lavoro e non per passione. La passione è arrivata dopo, è arrivata quando per lui il ferro era ancora un pezzo, un numero, semplicemente un grande contenitore con un codice una targhetta e talvolta un ciclo di verniciatura. Spesso si è perso guardando pezzi tutti uguali… perfetti, anzi conformi, come spesso gli veniva detto. Tanto uguali e tanto perfetti da non avere un’ anima. Disegnati per essere usati e non per essere guardati, per essere puliti e non per essere annusati. Il ferro per lui profuma di nostalgia e quello arrugginito di storia. Ha spesso trovato nel contenitore delle non conformità, quello con la targhetta rossa, così chiara e visibile da essere insopportabile, un senso anche per lui. Ecco lui è una “non conformità”. Inizia così la sua storia, una storia nata con pezzi di scarto, immaginando e provando, sbagliando tantissimo, forse troppo, ma mai con metodo. La sua formazione scolastica (mai classificato nei primi 25 della sua sezione) fatta di numeri, formule, rette e parallele si stava mangiando un po’ alla volta Paolo. Ha ascoltato le lettere e i pezzi di scarto del ferro. In questo momento ferro sagomato, spesso manualmente. E lettere che raccontano e vestono molto bene le sue giornate.
Paolo, voglio dire Nino, ha ascoltato anche me.
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