Niente come questa storia sintetizza il concetto di moda come cultura, laddove per cultura si intendono gli stili di vita, gli usi e i costumi di una società. La moda come fatto antropologico, come oggetto culturale, esprime innegabilmente l’identità di una comunità e della sua epoca storica e attraverso i suoi segni è possibile cogliere le trasformazioni sociali in maniera forse più evidente che attraverso altri sintomi.
Erano gli anni Ottanta, il decennio segnato dal trionfo del logo, segnato da quel movimento spontaneo che furono i “paninari”, giovani ossessionati dall’edonismo della marca che, visibile a tutti, definiva la questione dell’appartenenza, dell’essere parte di un gruppo sociale.
Erano gli anni di Best Company e di un uomo, Olmes Carretti, che fautore della celebre felpa simbolo di innovazione e qualità è stato anche, forse suo malgrado, fautore di uno dei più importanti fenomeni di comunicazione degli ultimi decenni.
Lo ritrovo all’edizione appena conclusasi di Pitti Uomo che calca di nuovo il palcoscenico della moda, a venticinque anni di distanza dalla vendita del brand, grazie a un progetto di rilancio di cui gli chiedo in questa nostra intervista.
Francesca: Ti ho lasciato che ero una ragazza e ti ritrovo oggi, più adulti entrambi, a ri-portare la tua testimonianza in uno scenario completamente diverso, molto più complesso e insidioso io credo. Corsi e ricorsi storici anche nella moda, ma non solo. Cosa veramente ti ha spinto a intraprendere di nuovo questa avventura?
Olmes: Credo che il passato sia importante per la storia di una persona, una come tante, che fa un mestiere. Tutti siamo importanti nelle cose che facciamo, vale per ognuno di noi. E Best Company è stata importante, importantissima. Venticinque anni fa abbiamo venduto il brand a una società che purtroppo, in sole tre stagioni, ne ha distrutto completamente il senso. E’ stata l’attuale proprietà, la famiglia Mancini, a decidere per un cambio di rotta: ha iniziato dall’immagine, avvalendosi per la pubblicità di un noto fotografo, e ha proseguito ricordandosi che c’era qualcuno che conosceva bene la storia perché quella storia l’aveva inventata. Era l’estate scorsa quando sono stato contattato e in autunno, siglato l’accordo, sono ripartito. Perché? Perché sono sempre stato così, chi mi conosce sa che Olmes è sempre stato uno Spartaco. Da quando cinquant’anni fa ho iniziato questo mestiere, in fabbrica a fare i turni di notte sui telai e d’estate, quando non andavo a scuola, a stirare le magliette, come tutti i giovani che si vogliono dare da fare e guardano verso un orizzonte.
Francesca: Riposizionamento del marchio, brand identity, consistente lavoro sul prodotto, tradizione e innovazione, la sfida di traghettare l’eredità del passato in un futuro sempre più veloce e difficile da decifrare. Tanti temi, tutti dai molteplici risvolti. Da dove hai cominciato?
Olmes: Abbiamo iniziato da subito a lavorare sul riposizionamento del brand, già dalla prima stagione, la F/W 18-19, che consegneremo a breve nei negozi e della quale abbiamo venduto circa 85.000 pezzi. In sei mesi abbiamo fatto un lavoro straordinario che prosegue anche con questa collezione S/S 19 che presentiamo qui a Pitti. Un prodotto ragionato, parte di una strategia di più ampio respiro che andremo ad applicare sul mercato globale: infatti non ci limitiamo più solo all’ Italia ma abbiamo esteso le vendite a tutta l’Europa. Quanto al prodotto, da parte mia, ho deciso di utilizzare dieci dei ricami storici più venduti e realizzare delle serie limitate di felpe, numerate direttamente sull’etichetta. E se questo è il passato c’è poi una parte che definirei l’inizio del futuro fatta di grafiche più moderne – sono cinque al momento – e stampe realizzate con tecniche particolari che possono essere prodotte solo in Italia perché siamo gli unici ad avere la manodopera all’altezza. C’è poi lo sviluppo di materiali diversi perché tutto quello che vedi qui è progettato nel mio studio: scelgo il filo, decido su quale macchina andare a lavorare in base al tipo di filo, segue poi l’applicazione dei disegni e delle grafiche, insomma un lavoro molto complesso e impegnativo anche per arrivare a certi risultati multidimensionali. Considera inoltre che per ogni felpa esistono sei varianti colore, e sono davvero tante.
Francesca: Chi veste oggi Best Company? Qual è l’utente finale di riferimento?
Olmes: Una fetta importante del mercato è rappresentata dagli attuali cinquantenni, quelli che negli anni ’80 facevano parte di quel momento spontaneo che era dei “paninari”. Tutto il resto della clientela è venuto di conseguenza, sedotto da questo modo di vestire giovane e fresco, non tanto e non solo nel tempo libero, dico proprio in toto, come modalità. Io lotto perché Best Company diventi la felpa in senso assoluto, globale. Non esiste nessun brand al mondo o nessuna azienda che proponga la felpa di cotone come indumento in grado di sostituire la funzione, storicamente assolta nella moda, dai maglioni di shetland, di lana o di cachemire. E oggi la tecnologia ci permette di lavorare con grammature come i 120 o 130 gr che rendono la felpa un capo di abbigliamento molto più funzionale del pullover.
Francesca: Da cinquant’anni nell’industria della moda, direi che ne hai viste di cose! A te voglio chiedere: in un contesto che è cambiato così radicalmente e così velocemente, e soggetto alle più diverse sollecitazioni, cosa secondo te è rimasto immutato?
Olmes: Senza esitazione direi il marcato spirito imprenditoriale e la straordinaria creatività di noi italiani! L’imprenditore italiano ha ancora, nonostante tutto, questa grandissima forza in sé e l’uomo che dal punto di vista imprenditoriale ha creduto fortemente in questo progetto e oggi lo sostiene ne è un esempio inconfutabile. Al punto che il motivo per il quale, dopo tanti anni, ho accettato di rimettermi in gioco è proprio perché l’attuale proprietà mi ha lasciato carta bianca dal punto di vista creativo. Condizione indispensabile per riprendere le fila di una storia tanto importante. La storia di Best Company.
Desidero ringraziare per la cortese intervista Olmes Carretti, designer di Best Company sito web – Instagram
Foto di Elisabetta Brian
Io indosso abiti Elle Venturini e orecchini Aumorfia