Le cose al loro posto, gli spazi immutati. Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo alla stanza, come fuori dalla portata della morte. Il rapporto con le cose era più stabile, ordinato, duraturo. Duravano perfino gli arredi e gli oggetti d’uso. La parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Su tutto si incrostavano le esperienze e i ricordi: le foto in bianco e nero di quando i nonni erano morosi, i comò, i vasi, le lettere, la forza prepotente di un vecchio quadernetto che la calligrafia decisa intitolava Pensieri. I pensieri fissavano attimi della vita di paese, dicevano del bosco, della ragazza incontrata nella via, della tempesta, dei campi. Scrivere, come vivere, era una pratica faticosa, paziente e tenace, frutto della pacata rassegnazione con cui si tirava avanti, figlia di una determinazione infinita. Citando un racconto di Borges uno dei pensieri ammoniva “devi camminare nella realtà come quell’uccello della leggenda, che costruisce il suo nido al contrario e vola all’indietro, perché non gli importa vedere dove va, ma ricordare da dove è partito.”
Foto di Elisabetta Brian