OSART GALLERY, PHOTOSEQUENCES

Raccolta e catalogazione, memoria, intervento sulla temporalità, supporto a una certa azione, la rinuncia alla dimensione formale dell’immagine.

Ci sono tutti i temi cari alla fotografia concettuale nella mostra collettiva dal titolo “Photosequences”, curata da Daniela Palazzoli, che ha inaugurato lo scorso 28 marzo a Milano presso Osart Gallery. Un percorso che si snoda lungo dieci opere storiche fotografiche realizzate tra il 1969 e il 1979 da artisti quali Vito Acconci, Vincenzo Agnetti, Peter Hutchinson, Duane Michals, Dennis Oppenheim, Gina Pane, Mario Schifano e Aldo Tagliaferro. 

Siamo nel decennio segnato dal dominio assoluto delle poetiche extra-pittoriche, il decennio in cui si affermano la body e la land art, l’arte povera, il minimalismo, tutte pratiche rispetto alle quali la fotografia ha saputo trovare particolare sintonia. E gli artisti protagonisti della mostra, sebbene appartenenti a movimenti diversi, sono accomunati dal fatto di avere utilizzato il concetto di foto sequenza sia come ricognizione descrittiva di cose ed eventi sia come elemento di indagine e manifestazione della psiche, trasformando l’occhio della camera da sguardo esterno a sguardo interno.

In più l’idea di una partecipazione allargata che si espande dalla politica al sociale fino all’arte, raccogliendo in maniera non occasionale le tensioni e le istanze di rinnovamento provenienti dal fenomeno del ’68, determina la necessità degli autori di instaurare un dialogo con lo spettatore. L’opera non si limita più ad essere semplice evento visivo ma la sua fruizione tende a farsi sempre più partecipativa e anche la fotografia risponde a questa esigenza assegnando allo spettatore funzione attiva e non più, e non solo, contemplativa.

Gina Pane parlava della fotografia come di un oggetto “sociologico” (Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi ed. Feltrinelli) che permette di cogliere la realtà, sostenendo che essa può cogliere sul vivo quella dialettica per cui un comportamento diventa significativo comunicando ad una collettività. Ne è un esempio l’opera fotografica in mostra Je (1972) in cui è evidente il riferimento al corpo, quello dell’artista come una sorta di intruso, al tempo stesso progetto, materiale ed esecutore di una pratica artistica, che trova il suo supporto logico nell’immagine attraverso il mezzo fotografico. Alla performance “JE” svoltasi l’11 agosto del 1972 in Belgio presero parte la stessa Gina Pane, una famiglia intenta a svolgere la propria vita quotidiana e un vasto pubblico composto da passanti e ospiti. Sintesi del desiderio dell’artista di ricostruire l’unione tra sé e gli altri: “Mettendo il mio corpo sul davanzale della finestra fra due zone: una privata e una pubblica, ho voluto esprimere un potere di trasposizione che ha infranto i limiti dell’individualità cosicché “IO” partecipi a “L’ALTRO.”

La fotografia come modalità attraverso la quale studiare sé stessi anche nell’opera Margins (1969) di Vito Acconci. Le immagini in bianco e nero degli alberi di Central Park a New York si intrecciano con le scritte destra/sinistra e fronte/retro del corpo umano fino alla rivelazione, in basso a destra, della figura umana. Un lavoro incentrato sulla presenza e assenza del corpo che bene evidenzia il ruolo della fotografia concettuale: non semplice documentazione di qualcosa che è avvenuto in un altro luogo e in un altro momento, bensì ri-presentazione di quel qualcosa in sua assenza.

Così anche il poliedrico Dennis Oppenheim che nel lavoro 2 image transfer drawing (1975), disegnando attraverso i figli Chandra e Erik e loro attraverso di lui, proietta il corpo nella dimensione temporale – ora passata ora futura – testimoniando il peso fondamentale della fotografia in un periodo storico in cui essa diventa strumento in grado di conferire concretezza alla visione.

Peter Hutchinson, l’esponente principale della cosiddetta Narrative Art, lavorando sul connubio di due componenti principali, quella fotografica e quella scritta, prende spunto da un micro evento tratto dalla quotidianità, ovvero un incontro, per realizzare l’opera The Visit (1972). Foto e parole, proprio perché appartengono a due statuti linguistici diversi, costringono la mente a compiere due percorsi separati a seconda che ci si affidi alle immagini oppure al verbo.

Maestro indiscusso di una tendenza narrativa capace di esaltare i toni vitali e psichici delle immagini è l’artista statunitense Duane Michals qui in mostra con Il ritratto di Bill Brandt (1973): una sequenza di nove immagini disposte in maniera circolare così da creare un’esplorazione a 360°, con finalità anche conoscitiva, del collega fotografo.

Sul versante italiano agli inizi degli anni ’70 gli artisti concettuali come Schifano, Tagliaferro e Agnetti si confrontano in maniera innovativa e costruttiva con l’avanzare dei mass media, della tecnologia e dei dispositivi audiovisivi che fanno scorrere, tra le pieghe del quotidiano, immagini come flussi e sollecitano nuove sperimentazioni e improvvisazioni.

Mario Schifano, che insieme agli altri partecipò nel 1974 a Fotomedia curata da Daniela Palazzoli presso il Museum am Ostwald di Dortmund – mostra che decretò uno dei primi riconoscimenti della fotografia concettuale nel panorama artistico internazionale – è presente in questa occasione con una sequenza di ventitré Polaroid a colori su cartoncino.

Mentre Aldo Tagliaferro con l’opera L’IO-RITRATTO (1977) indaga il proprio “io” attraverso la propria immagine frontale, il suo negativo e l’immagine della nuca, utilizzando la fotografia come una sorta di specchio utile a prendere coscienza di sé.

Infine Vincenzo Agnetti con una versione su carta dell’Autotelefonata (1974) invita lo spettatore a interrogarsi sui molteplici significati di cui l’opera si fa portatrice. L’immagine dell’artista in sequenza che lo ritrae munito di due telefoni, la parola yes ripetuta più volte, due telefoni che sembrano in attesa di dialogare tra loro stimolano una profonda riflessione sui temi centrali della sua poetica quali la comunicazione e l’analisi del linguaggio e le sue ambiguità.

Osart Gallery dedicherà proprio a questo visionario artista uno stand monografico in occasione della imminente edizione di Miart (13-15 aprile 2018). Un progetto espositivo che si propone di analizzare il percorso artistico di Vincenzo Agnetti durante il decennio degli anni ’70 e che alle opere più conosciute, come gli Assiomi e i Feltri, accosterà un nucleo di opere rare e uniche come quelle che sono state oggetto della mostra Vincenzo Agnetti. Oltre il Linguaggio che ha inaugurato la nuova sede della galleria.

Mentre in città l’Archivio Vincenzo Agnetti, presso lo spazio di via Machiavelli 30, inaugurerà il 14 Aprile 2018 la mostra Territorio–Territori, curata da Guido Barbato, che prende spunto da un’intervista di Mario Perazzi del Corriere della Sera, nel febbraio del 1972, in cui Agnetti spiega gli intenti della sua operazione artistica e presenta una serie di opere che si articolano attorno al tema del territorio, dei territori.

Un’agenda ricca di appuntamenti che vale davvero la pena sfruttare per avvicinarsi alla comprensione di un’arte solitamente considerata difficile come è appunto quella concettuale.

Photosequences, Osart Gallery – Milano Corso Plebisciti 12 | 29 marzo 2018 – 26 maggio 2018 | web siteFacebookInstagram

Vincenzo Agnetti Solo Show, Osart Gallery – Miart Hall 3 Booth D56 | 13-15 aprile 2018

Foto, Elisabetta Brian

Abiti, Diego Salerno Collezione Malum

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