I vecchi ripetevano sempre che bisognava muoversi per non sentire il freddo. Che loro a forza di camminare erano temprati, nelle gambe e nello spirito, perché se il freddo entra fin dentro le ossa il movimento invece le rende impenetrabili. La magia dei vecchi era la loro indifferenza al freddo e quindi al male. Negli inverni così rigidi da sembrare di cristallo solo il muoversi ti salvava dall’asprezza di un tempo che si ostinava a non passare mai. Avevo capito presto che a guardare fuori dalla finestra, fissa nell’attesa di qualcosa che illuminasse l’orizzonte, gli alberi si facevano ancora più spogli e l’aria tagliente diventava di neve. Nel cielo color ghiaccio la fantasia non ci sapeva proprio stare e quella, la paralisi dell’immaginazione, era la vera sciagura. “Se stai ferma non succede niente” dicevano, e io li prendevo in parola. E’ ascoltando i vecchi che ho imparato a muovermi, per imparare la magia della loro indifferenza al freddo, per non sentire il gelo e la sua morsa che spesso ammutoliva dentro. All’inizio erano camminate lunghe, il vecchio davanti e io dietro e il bastone a scandire passi curiosi fatti con i piedi che annegavano negli scarponi da montagna. Poi è stato correre, specie nei giorni in cui anche dentro l’inverno non dava tregua. Per lo più in salita a far fatiche da scalatore, con l’affanno di cercare qualcuno, di inseguire un pensiero o di sognare un sogno. Ma con il fiato sempre troppo corto per un andare che era sbagliato, per una rotta che non era quella giusta. Per quelle cose nell’animo che sembravano inafferrabili nonostante tutte le salite e le scalate. Per quelle cose nella testa che sembravano indicibili ai tanti che ostentando sicurezza, i pensieri sempre in ordine, mai una esitazione, facevano casualmente un pezzo di corsa vicino a me. Infine, e solo infine, è stato muoversi. E grazie a quello sono riuscita a sedermi sulla cima della vetta immaginaria di cui mi diceva il vecchio quando camminavamo.
Se gli chiedevo “Ma dove stiamo andando?” lui mi rispondeva “Risparmia il fiato e muoviti, dobbiamo arrivare sulla cima della vetta immaginaria.”
Quando incerta replicavo “Ma io non vedo nessuna vetta” lui ribatteva “E’ la vetta immaginaria, è dentro i tuoi pensieri, perciò sei tu che devi disegnare la mappa, che devi inventare le strade. Quando smetterai di sentire tutto questo freddo l’avrai raggiunta e forse quel giorno potrai sederti, un solo attimo, a guardare. Ma fino ad allora devi muoverti.”
Nel treno che mi portava a Roma avevo netta la sensazione che fosse un movimento veloce e giusto quello lì. Che stavo scoprendo un sentiero nascosto, disegnando una mappa precisa, che in quel moto centrifugo sarei arrivata dentro un altro dei miei sogni e gli avrei dato forma definita, tra Cielo e Terra, proprio lì dove volevo io, dove avevo intuito essere la mia vetta immaginaria. E’ così che insieme a Fernanda Veron ho cavalcato le nuvole e sono arrivata fino in Argentina (www.thedummystales.com/the-dummy-meets-fernanda-veron). E’ così che insieme a Mauro Pallotta ho corso a perdifiato giorno e notte per i vicoli di Roma (www.thedummystales.com/the-dummy-meets-mauro-pallotta). E’ così che insieme a Corrado d’Elia sono tornata nel mio rifugio preferito, in teatro, e insieme abbiamo aspettato che Ulisse facesse il suo ritorno (www.thedummystales.com/ulisse-il-ritorno). E ancora, abbiamo fantasticato di Penelope e della sua attesa (www.thedummystales.com/penelope-2).
Poi, come d’improvviso, il finire di giugno. E così anche il freddo mi ha insegnato l’amore.
Foto di Nils Rossi